venerdì 29 marzo 2013

Ho visto

Dedicato a chi osserva da una finestra

Ho visto tante cose. Ho visto treni troppo veloci per essere presi al volo, e treni troppo fermi per essere quelli giusti.

Ho visto la pazzia e, a volte, mi è piaciuta davvero, condizione molto più vera di una vita materiale fatta di cose inutili... "I matti vanno contenti tra il campo e la ferrovia, a caccia di grilli e serpenti...". Ho visto briciole riempire il cuore, il gusto e l'anima della gente, dare un senso a tutto. E pagnotte meravigliose scaraventate nella spazzatura perché di un sapore orrendo o perché di anime senza denti. Ho visto tastiere riempire spazi illuminati di lettere, quasi a casaccio. Senza senso. Per abitudine. E ho visto penne scrivere di mondi meravigliosi che avrei tanto voluto visitare. O che, forse, un giorno visiterò.

Ho visto vecchi stanchi e vogliosi di andarsene. Ma con parole verso il prossimo sempre piene di speranza. E un monito sottinteso: "Sii protagonista della tua vita, il tempo corre. Non fare come me...". Guerrieri sconfitti che cercano la  loro vittoria nelle esistenze degli altri. Ho visto adulti pensare sempre a ieri come rifugio e a domani come unica possibilità, mai al sole dell'oggi. La vita come due scatole indipendenti, alla ricerca di una soluzione come i rebus della settimana enigmistica. Non accorgendosi che la soluzione è il viaggio. Ho visto giovani voler solo diventare grandi. Il passato come una pattumiera piena di roba da buttare. Vorrei che si tenessero qualche rifiuto in tasca. Anni dopo si accorgerebbero da dove vengono e il viaggio sarebbe più consapevole.

Ho visto occhi adornati a festa sciogliersi in righe di lacrime colorate, ripulite da uno straccio nel tentativo di dimenticare. Ho visto pupille sorridere, solo quelle, nell'espressione di un uomo appena licenziato. In fondo non aspettava altro per avere un'altra occasione. Credeva di non poterselo permettere ma si sbagliava. Ho visto bocche spalancate dalla meraviglia. Sono i momenti in cui siamo più vulnerabili perché inghiottiremmo di tutto, come fanno i bambini. Ma tra tutta la merda che mandiamo giù, c'è anche qualche lucciola che ci ricorda quanto è bella l'estate. E quanto è bello aprire i nostri sensi al mondo. Rosso, giallo, blu, nero... purché siano colori.

Ho visto palle rotolare solo per essere rincorse. E giovani che non aspettano altro che qualcuno li convinca ad acchiapparle. E a farle rotolare ancora, e ancora, e ancora... Ho visto reti dividere in due ipotetici pianeti. Colore contro colore. Ma alla fine del gioco, i protagonisti camminano lungo la rete dandosi la mano. Il senso della vita, forse. Ho visto madri e padri perdere la ragione, alla ricerca del possesso di qualcosa che non sarà mai loro. Ma dei loro figli. Ho visto abbracci veri, sinceri aprirmi il cuore e la mente. E ricordarmi che sono ancora vivo. Solo con mezza diottria in meno.

Ho visto tante cose ma non abbastanza per essere sazio. Di cassetti da aprire è pieno il mondo.

lunedì 3 gennaio 2011

01.01.11

Dedicato alle ultime ruote del carro

Uno. Uno. Doppio uno. Il primo giorno dell’anno. Il primo di tutti. Gli altri 364 vengono dopo. Ci si ricorda sempre del primo. Degli altri un po’ meno, tranne qualche rara eccezione. Ma non sempre il numero 1 vince. Non ci credete? E allora facciamo un gioco. I primi contro gli ultimi, come in una partita vera.

A scuola, interrogazione. “Vediamo un po’… Giannotti interrogato! Tu per primo”. Gli altri, nel frattempo, ripassano quello che non avevano studiato. O, meglio ancora, se ne stanno tranquilli perché dopo avere dato 4 a te, interrogherà la secchiona della classe per par condicio (e un po’ perché siamo sotto Natale e non si infierisce). Risultato: 1-0 per gli ultimi.

Alla posta, in coda. Ma neanche per sogno! Hai preso il biglietto n. 1. Eccheccazzo! Godi come un riccio e ti giri a guardare gli sfigati dietro di te. Hai la faccia di Paul Newman ne “Lo spaccone” e il mondo ai tuoi piedi. Ma per essere arrivato primo hai fatto una fila di un’ora fuori dall’ufficio postale, 5 gradi sotto zero. Il giorno dopo sei a letto con un febbrone da cavallo e la papalina in testa come un ottantenne. Però nel portafogli hai la ricevuta n. 1. Bel pirla! 2-0 per gli ultimi.

A tavola, pranzo di Natale. Hai una fame che ti mangeresti il tavolo. Infatti te ne sei già rosicchiato un pezzo ma la tovaglia è abbondante e l’angolo mancante non si vede. Ti servono per primo. Madonna santa, finalm… Alt! Non comincerai mica da solo, maleducato! Si inizia a mangiare quando tutti saranno serviti. Solo che vieni dal sud, e prima di te vanno serviti altri 42 terroni famelici. L’ultimo mangia la pasta al forno fumante. Tu che ce l’hai lì nel piatto da mezz’ora hai bisogno di martello e scalpello per staccarne un boccone. Preferisco il tavolo… 3-0 per gli ultimi.

Sempre a Natale, tombolata. Trentacinqueeee... Ambo! Non hai mai vinto una mazza in vita tua e corri dal Pippo Baudo di turno sventolando la tua cartellina, come un bimbo a cui hanno regalato la prima bicicletta. Ma il regalo non è quello. Tu vinci una schifosa palla di vetro, di quelle che se le giri fanno la neve. Non capisci proprio una fava. E’ l’ultimo quello che vince il regalo più bello. Tombola!!! Il rag. Scoreggini vince una crociera ai caraibi. Ma non ci andrà. Gli hai tirato in testa la palla di vetro ed è crollato al suolo. Magra consolazione. 4-0 per gli ultimi (anche se meriteresti il 3-1 per la mira).

In chiesa, messa di fine anno. “Gli ultimi saranno i primi” disse Gesù. E qui non si scherza. Se sei cristiano, devi avere fede. Lo dice lui quindi ha ragione.
5-0 per gli ultimi.

E adesso passiamo allo sport. Roba tua. Qui i primi vincono facile il loro punto. O no? Eppure anche tra chi trionfa l’ultimo ha sempre qualcosa di speciale. Facciamo un esempio. Finale di Champions League a Manchester (credo). Milan – Juventus. Si va ai rigori. Shevchenko calcia l’ultimo rigore. GOOOL!!! Il Milan è Campione d’Europa. Sheva su Dida, e poi tutti su Sheva. Manco avesse vinto la Coppa da solo. Eppure le immagini dei telegiornali sono quelle. L’ultimo vince quasi più degli altri. Chi ha segnato il primo rigore non se lo ricorda nessuno (e io non faccio eccezione).

In 25 anni ho vinto e perso tante partite. Tra quelle che considero ancora oggi le mie vittorie più belle da allenatore ricordo due partite su tutte. E in entrambe, come per magia, furono determinanti le cosiddette "ultime ruote del carro" (o quasi). Due giocatrici che, nelle loro rispettive squadre, non erano certo considerate “er mejo d’a piazza”. Ma che, nella vittoria più bella della loro squadra, vinsero in campo forse più degli altri. Che meraviglia…

Certo, la maggior parte delle volte nello sport non va così. Ma quando questo accade sembra proprio un disegno divino.

lunedì 27 dicembre 2010

Il volo dell'aquila

Dedicato a quelli che hanno paura

Voglia di guardare all’insù. Voglia di volare alto. Voglia di mettere le ali ai nostri pensieri. Voglia di soprannaturale. Quando questo accade siamo in uno stato di incoscienza vigile, come alla ricerca di un luogo perduto. Un piccolo mondo che non è terreno e del quale vorremmo essere cittadini, almeno per qualche piccolo istante. Un paese immaginario pronto ad accogliere anime inquiete alla ricerca di risposte.

Questo piccolo pianeta fantastico è la terra delle risposte. Tutti, qualche volta, desidereremmo abitarci. C’è chi lo trova nella fede, chi in una persona, altri ancora nel denaro. Quindi, dal proprio Dio, ciascuno ottiene (o pensa di ottenere) le risposte che cerca. Pochi, per fortuna, smettono di cercare e si perdono. L’oblio.

Ma se io sono l’Orso Grigio, chi è il Dio degli animali? In quale mondo vive? Così come gli uomini, anche gli animali guardano spesso al cielo. E allora deve essere lì il suo territorio, lì ci sono le risposte. E’ chiaro. Fiera, bella, sopra le teste terrene. La regina del cielo. Orso cerca Aquila… Dove sei?



“Perché punti il naso sopra la tua testa anche oggi, orso inquieto?”
“Ho bisogno di te. Cerco risposte”.
“Non essere stolto, orso. Io non do risposte. Io volo e osservo. Tutto qui”.
“E quando da lassù mi osservi, cosa vedi?”.
“Vedo un animale che tutti dipingono come un essere rude, forte, solitario”.
“Non ti ho chiesto cosa vedono gli altri in me. Ti ho chiesto cosa vedi tu”.
“Ecco. Adesso ti riconosco. Sai essere anche un animale intelligente”.
“Che risposta è?! Cosa vuol dire che so anche essere intelligente?”
“Sempre impaziente, il mio amico… Rude, forte, solitario. Sono modi di essere che servono per proteggerti. Un po’ come la tua pelliccia, ti protegge dal freddo. Ma tu, in realtà, non sei questo. O, almeno, a volte non vorresti esserlo”.
“Già… Meno male che qualcuno se n’è accorto. Vedi? Tu lo hai capito ma stai lassù”.
“Io forse so osservare meglio di altri. Ma per me è più facile. Sono un’aquila. Gli animali del tuo mondo avrebbero bisogno che tu ti concedessi un po’ di più. Dì loro quello che senti”.
“Nel nostro mondo anche un orso, se abbassa le difese, può correre seri pericoli. E tu sai bene cosa vuol dire, regina del cielo”.
“Certo che lo so. Ma se non vuoi concederti perché ti lamenti?! Hai paura?”
“L’ho già fatto. E mi sono fatto del male. Ora ho paura e tiro fuori gli artigli. Mi difendo. E’ meglio così”.
“Caro orso grigio, se quello che gli altri vedono in te ti soddisfa, allora tieni sempre gli artigli aguzzi. Ma il mondo teme gli artigli. Se, invece, vuoi che intorno a te ci sia meno paura, comincia tu”.
“E se poi sbaglio? Se abbasso la guardia e incontro qualche animale più furbo di me?”
“Il rischio c’è sempre. Sta a te decidere se ne vale la pena. Un modo ci sarebbe per correre qualche rischio in meno. Non è un metodo infallibile ma spesso funziona”.
“E quale sarebbe?”
“Gli occhi. Quelli non sanno mentire. C’è chi dice che siano collegati direttamente al cuore. Guarda quelli e abbi cura di te”.

Se n’è andata. Chissà se tornerà a farmi visita. Intanto mi levigo un po’ le unghie ma non troppo. Una cosa è certa. Il cielo ha sempre qualcosa di magico. Vola Aquila, vola… E torna a trovarmi, quando puoi.

lunedì 6 dicembre 2010

Mani

Dedicato alle sensibilità nascoste

Mani grandi, mani piccole, mani che cercano, mani che afferrano, mani costrette, mani che parlano…

Mani segnate di un vecchio che raccontano la loro vita. Ad ogni ruga una canzone. Come un menestrello in una piazza con intorno un mondo rapito dalle sue storie.
Mani chiuse di un neonato che esplora quello che ancora non conosce. Ma fiduciose di sapere. Come davanti ad una grande giostra con milioni di luci.
Mani titubanti di una donna che ha sofferto. Come un cieco che si muove in una stanza buia perché non si fida di quello che può capitarle.
Mani nervose di un uomo che non sa che fare. Come un tuffatore che deve lanciarsi dallo scoglio più alto. E non gli era mai successo. Non così in alto.

Mani che si tendono per cercare aiuto. Come un naufrago verso chi sta sulla scialuppa.
Mani felici che si afferrano nel girotondo. Il gioco della gioia con parole orribili “Giro, girotondo. Casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra…”. Il controsenso.
Mani che si concedono nell’abbraccio. Come un grande letto di ovatta. Morbido e rassicurante.
Mani che si addolciscono nella carezza. Come madri premurose che vestono il loro bimbo per il primo giorno di scuola.
Mani furenti che lanciano schiaffi. Come animali incattiviti che difendono il loro cibo da ladri indegni.

Mani con cinque pezzi diversi. Cinque storie, ognuna delle quali unica. E lunghe linee al centro, romanzi di vita che qualcuno finge di leggerci.
Mani e dita che ascoltano la musica. Si muovono, battono, picchiettano. Come un uccello alle prese con il suo nido per l’inverno. Ma con un ritmo preciso.
Mani che parlano per chi voce non ha. Come alberi in una giornata di vento. Parole diverse ma spesso molto più assordanti.
Mani operose che costruiscono cose. Come tanti piccoli dei che fabbricano il loro minuscolo mondo nel quale rifugiarsi.

Mani che applaudono lo sport. Come a voler dire “io c’ero”.
Mani al cielo. Come a voler urlare “io sono arrivato fin lassù, e non mi prenderete mai”.
Mani chiuse, strette in un pugno. Come a dirsi “io non mollo, cazzo! Mai!”.
Mani che grattano. Perché la speranza è una cosa buona.

lunedì 29 novembre 2010

Sogni olimpici

Dedicato a Giorgia

A volte scatta qualcosa nella nostra testa. La chiamiamo “associazione di idee”. Qualche giorno fa, un’atleta che allenavo non molto tempo addietro ha pubblicato su FB una frase che mi ha attribuito. Uno dei miei soliti deliri che devo aver sputato fuori dalla bocca in uno dei tanti giorni in cui cercavo di dare un senso a quello che facevo: “L’unica battaglia che non puoi vincere è quella che non vuoi combattere”. Non c’è niente da fare. Dopo venticinque anni, qualcosa o qualcuno mi riporta sempre sulle solite idee fisse. Quelle dei matti, ricordate? E chissà perché ho pensato di nuovo allo spirito olimpico, quello dei 5 cerchi. Il sogno per eccellenza, almeno che per chi fa sport. Così mi sono ritrovato tra le mani un articolo che avevo scritto esattamente dieci anni fa. Una celebrazione tutta mia di chi ha fatto del suo sogno una realtà meravigliosa. Pazzesco come, senza volerlo, ho ritrovato frasi scritte di recente. Esattamente identiche a quelle di due lustri fa. Correva l’anno 2000 e si erano appena concluse le Olimpiadi di Sydney. L’orso grigio scriveva…

“Partecipare ai Giochi con la consapevolezza di essere parte dell’evento sportivo per eccellenza, di rappresentare la più grande festa di popoli e razze del pianeta e, per questo, vivere la sfida non contro un’altra bandiera bensì contro sé stessi. Due mesi or sono, questi pensieri circolavano nella nostra mente. Si chiude il sipario: il cuore rallenta e la testa cammina...
Queste due settimane insonni ci hanno convinto che la speranza è una cosa buona, che la tenacia è linfa vitale, che lo sport sa essere magico. Gli occhi… gli occhi di molti atleti hanno raccontato al mondo intero, senza bisogno di inutili parole, che la gloria più grande non sta nel battere un avversario ma nel vincere i nostri limiti, le nostre insicurezze, i nostri pregiudizi. Ci sarebbero tanti nomi da citare: ne scegliamo solo due, in rappresentanza di un popolo di uomini e donne che vorremmo fossero nostri amici, anche solo per un giorno.

Steve Redgrave, classe 1962, pochi capelli e cuore da eroe. Dislessico e diabetico, cinque iniezioni al giorno di insulina. Gli ignoranti del canottaggio (noi compresi), vedendolo giungere a Sydney, avranno probabilmente pensato “non può essere un atleta, sarà un dirigente”. Ad Atlanta ‘96, dopo la sua quarta medaglia d’oro in altrettante edizioni olimpiche, disse “… se risalgo su una barca, sparatemi!”. Di anni ne aveva trentaquattro. Non gli basta, il richiamo dei cinque cerchi è troppo forte. La terra “down-under” si inchina al suo quinto oro olimpico, insieme a tre giovani atleti di cui potrebbe essere il padre. I nostri occhi sono umidi, i suoi guardano i figli in tribuna.

Antonella Bellutti, classe 1968, occhi buoni e gambe d’acciaio. Nel ‘94 abbandona l’atletica leggera, suo primo grande amore (è un’ottima ostacolista), e sale per la prima volta su di una bicicletta, attrezzo con cui probabilmente, fino al giorno prima, si recava alla pista di atletica o a comprare il giornale. Due anni dopo vince il suo primo oro olimpico ad Atlanta, e lo dedica a coloro che sognano uno sport pulito. A Sydney scende mestamente dal podio nella sua gara “forte”: l’inseguimento individuale su pista, l’oro di Atlanta. Sembra distrutta, ma non è così. Risale in bicicletta qualche giorno dopo nella gara a punti. È un trionfo! I suoi occhi non smettono di piangere, i nostri anche.

Che dite, è solo retorica tutto questo? Beh, allora diciamo che l’Italia sarà anche un popolo di sognatori ma, alle volte, i sogni diventano realtà. Dedicato a tutti gli sportivi che, almeno una volta, hanno sognato. Grazie di cuore”.

lunedì 22 novembre 2010

Non può piovere per sempre

Dedicato a chi si ostina a credere

Nessuno sembrava darle retta e lei si arrabbiò. A modo suo. Ne fece scendere ancora, e poi ancora, e poi ancora… La città era allagata, la gente stanca e cupa ma, nonostante tutto, uomini e donne si limitavano a camminare sotto l’ombrello. O a continuare a lavorare, ad andare a scuola, a lamentarsi di quanto fossero esausti. O, più semplicemente, a spiare attraverso le tende mentre l’acqua continuava a scendere e maledicendo il mondo intero. Ma nessuno si chiedeva il perché. Nessuno poteva o voleva capire. “E allora continuerò fino a quando qualcuno non capirà” disse tra sé e sé. “E’ mai possibile che nessuno in questa città si accorga di quanto poco possa bastare per far tornare mio fratello?” La pioggia aveva deciso che il mondo, attraverso di lei, si sarebbe accorto dei suoi errori. Sorella pioggia, stavolta, si era incazzata davvero.

Se ne stava nascosto dietro alle montagne. Ed era la vergogna a tenerlo nascosto. Lui si era fidato degli esseri umani ma loro sembravano come paralizzati, vuoti, assenti. Continuava a rimuginare le stesse parole: “Ve lo avevo detto… Il mio calore in realtà è il vostro. Dipende da voi”. Sua sorella era stata saggia e lui lo sapeva. Fratello Sole aveva scaldato la città per lunghi anni ma, quando Sorella Pioggia si era arrabbiata in quel modo, non c’era stato nulla da fare. Per spazzare via le nuvole, le grandi alleate di Sorella Pioggia, Fratello Sole aveva bisogno della gente. Solo uomini e donne potevano farlo tornare e c’era solo un modo perché accadesse. Era il loro cuore a doverlo chiedere. Il cuore della gente.

Aurora se ne stava nella sua camera da letto. Non poteva uscire, continuava a piovere e quindi ingannava il tempo. Ma sistemare i giocattoli, pettinare le sue splendide bambole e avere cura del suo piccolo orso Smily non bastava più. “Perché la pioggia è così tanto arrabbiata con noi?!” continuava a ripetersi. E fu proprio in quel momento che sentì una voce. Era Smily. Il suo piccolo orso si animò. Non poteva credere ai suoi occhi. Se lo mise sulle ginocchia e, con occhi sgranati dallo stupore, stette ad ascoltarlo. “Tu hai un nome speciale. Tu puoi farlo tornare. E’ solo nascosto e tu sai dove. Se lo trovi, lui tornerà. Non può piovere per sempre”. E fu così che Aurora, sparì.

La città era sempre più triste, ed i genitori di Aurora disperati. La loro piccola era svanita nel nulla. Nessuno l’aveva vista, nessuno sapeva dove fosse. Solo un biglietto sul comodino, nient’altro. “Non può piovere per sempre”. Tutta la città si era mobilitata per trovarla. Cartelli dappertutto, telegiornali, radio… Niente. Sparita. Ma all’improvviso accadde qualcosa di inaspettato. La pioggia cessò di colpo, come una mano divina che chiude il rubinetto dell’acqua. In principio fu una luce fioca, poi un urlo. “Guardate!!! Là… Verso la strada che conduce alle montagne!!!”.

Fratello Sole stava lentamente tirando su la testa, come un cucciolo che si stiracchia dopo un lungo sonno. All’orizzonte, una sagoma di bimba che sorrideva come nessuno era stato in grado di fare in quei lunghi giorni di pioggia. E quando fu più vicina, tutti si accorsero che Aurora stava tornando a casa con un piccolo orsacchiotto in mano.

martedì 9 novembre 2010

La chiave d'ingresso

Dedicato ai nuovi giovani e ai vecchi tromboni

Quest’anno io e la mia malattia festeggiamo le nozze d’argento. Alleno da venticinque anni. Babba bia! Tanta roba… Ma non mi sento per niente appagato, stanco o passato. La candela è sempre accesa. Anzi, mi sento più utile ora che a vent’anni. E sono sempre più curioso. Ho sempre una gran voglia di capire, di confrontarmi, di lanciare nuove sfide a me stesso e al mondo. Il merito è tutto delle mie “bimbe”, nuove leve da far crescere, nuove giocatrici che cerco di aiutare a diventare “Atlete” (con la A maiuscola). E’ un viaggio complicato, pieno di difficoltà, di randellate dietro la schiena. Ma con tantissimi momenti di soddisfazione impagabili.

E dopo venticinque anni c’è ancora una cosa che mi fa incazzare come una bestia. Una frase in particolare. Una delle tante frasi fatte che noi allenatori elaboriamo con il nostro cervellino “so tutto io”, le facciamo prendere l’ascensore con direzione piano di sotto ed eccola uscire dalla nostra bocca. DIN! Le porte si spalancano. La stronzata delle stronzate: “Le nuove generazioni di giovani non hanno voglia di far niente, niente fatica. Non come una volta… Una volta era diverso…”. E ridaje con la solita tiritera che il passato era meglio. La cosa ancora più assurda è che questa frase, spesso, viene pronunciata da colleghi che allenano da pochissimi anni. Ma che ne sanno? Basta che un vecchio coach “trombone” pronunci la minchiata e giù tutti a fare “sì” con la testolina, come tante brave pecorelle.

La verità è un’altra. I giovani delle generazioni passate non erano meglio. Erano semplicemente diversi da quelli di oggi. Capito, vecchi rincoglioniti? Diversi, non migliori. Sembra quasi che vent’anni fa bastasse entrare in palestra per un solo giorno ed, improvvisamente, i giovani vedessero la luce. E come per incanto, la pallavolo diventava la loro passione, la loro ragione di vita. Erano improvvisamente disposti ad allenarsi tutti i giorni senza fiatare, a spezzarsi la schiena con il sorriso sulle labbra, a mettersi sull’attenti come tanti soldatini. Senza che noi allenatori, dirigenti o addetti ai lavori facessimo nulla. Tutti unti dal Signore. Amen! Andate in pace. Anzi, andate un po’ a cagare, già che ci siete…

Io di pallavolo credo di capirne ancora poco. Non credo di essere poi così bravo, anche dopo venticinque anni. Ho tanto ancora da imparare. Certo che i tempi sono cambiati, non sono mica imbecille. Ma una cosa l’ho capita. Nel mio lavoro, la sfida sta nel trovare la chiave d’ingresso. Quella che serve per entrare nella testa dei nuovi giovani, oggi come allora. Li vogliamo più indipendenti e meno mammoni? Proponiamo loro un modello diverso e lavoriamoci sopra. Anche loro hanno bisogno di capire. E se capiscono, ti danno anche l’anima! Difficile? Faticoso? Certo che lo è! Ma se non siamo disposti a farlo, cosa ci andiamo a fare in palestra? Ci lamentiamo che i nostri figli vogliono la pappa pronta ma siamo noi a dar loro questo modello. I giovani sono come delle spugne, assorbono il mondo che li circonda. E lo fanno loro. Vogliamo combattere i modelli negativi? E allora diamo ai giovani delle chances, proponiamo percorsi alternativi e su le maniche.

Vincere? Certo che mi piace! Vincere è uno degli obiettivi ma non può essere il solo modello. Ci sono momenti che mi danno ancora più gusto. E vi faccio alcuni esempi. Chi non mi conosce bene, a volte, mi scambia per un pazzo vedendomi lavorare in palestra. Chi poi impara a conoscermi pensa che io lo sia davvero. Eppure tra le mie nuove bimbe sono sempre più numerosi gli episodi in cui sono loro a chiedermi di potersi allenare di più. Mi mandano sms chiedendomi il permesso di allenarsi con un’altra squadra. A volte, sono io a proporre loro di andare a fare panchina nel gruppo superiore. E non dicono mai di no. Anzi, accettano con piacere. E allora mi chiedo: ma siamo così sicuri che i giovani di oggi non abbiano voglia di fare un cazzo?

lunedì 1 novembre 2010

Testa e croce

Dedicato a chi ci si riconosce

Questo potrebbe essere un film. Forse un po’ strano ma pur sempre un film. Una specie di lungometraggio che assomiglia ad un videogame. I protagonisti sono gli uomini e le donne. Sono seduto di fronte ad uno schermo, solo. Una bellissima sala di proiezione con un’unica poltrona. Ho due monete molto particolari in mano, uomo e donna. Basta lanciarne una in aria, fermarla tra le mani e osservare. Testa o croce? Non devi neanche scegliere, non si vince nulla. E le immagini partono. Mi guardo intorno. Unico cliente, visione privata. Regista inconsapevole per un giorno. Prima le donne, moneta in mano. Trois, deux, un… fiit!

Testa (donna).
La bellezza, l’armonia e la delicatezza in un unico corpo. Un corpo capace di creare nuova vita. Come la più grande Dea dell’Olimpo. Il grande miracolo della natura. Una testa che deve sempre capire, interiorizzare. Un cervello che non si spegne mai. Mai stanca, mai doma. La donna è affidabile. Ha un cuore in grado di amare profondamente ma che vuole sempre un perché. Una forza nella mente che le permette di ripartire sempre e comunque, soprattutto nei momenti bui.
Anche in un mondo senza uomini, la donna troverebbe il modo di sopravvivere e forse anche di riprodursi.

Seconda moneta. Testa (uomo).
Un corpo spigoloso, grandi ossa e grandi muscoli. L’esatto opposto dell’armonia. L’immagine della sana forza fisica con un cuore da eterno fanciullo. L’uomo sogna, lavora, bacia anche senza un perché. Semplicemente perché gli va. Perché no?! Non sempre capisce perché non sempre gli va di capire. Non sa cos’è il rancore. L’amicizia con i suoi simili è il suo forte. E’ in grado di scalare una montagna a piedi nudi per un amico vero. In un’isola deserta troverebbe il modo per costruirsene uno (ricordate Tom Hanks e “Wilson” nel film Cast Away?). E’ tutto più grande nell’uomo, anche il cuore.

Di nuovo prima moneta. Croce (donna).
La donna non parla, interiorizza, rielabora. Si contorce. E quando parla spesso non lo fa con la persona interessata ma con l’amica di turno.
La sega mentale è il suo forte. Ha la capacità di descrivere un sassolino che rotola come la più grande delle frane del cosmo. Ama apparire. Parla con il suo corpo e il corpo le risponde. Ha un grande potere e lo sa benissimo.
Ma non sa dimenticare e te lo ricorda con i suoi tempi. Magari due mesi dopo il temporale. D’improvviso… BUM! E l’uomo non capisce.

Ultima faccia delle medaglie. Croce (uomo).
Rutta, bestemmia e scoreggia. A volte va in giro con patacche di sugo sulla maglia e se ne accorge il giorno dopo. Ma se la rimette lo stesso. E chissenefrega. Anche lui parla con il suo corpo, quasi sempre con l’organo situato al centro. Con gli altri organi fa spesso fatica.
Ha il “vaffa” sempre pronto, lo esterna spesso per poi dimenticarsene in fretta. E’ inaffidabile ma con candore. Come se fosse la normalità. Beccato come un bambino con le dita nella nutella. E la donna non capisce.

Ma lo sport in tutto questo cosa c’entra? Come cosa c’entra?! Amore, famiglia, lavoro, sport non fa differenza. Uomini e donne sono questa roba qua dal primo all’ultimo minuto del giorno. Certo, smussano angoli. Ma il grosso rimane. E la cosa più bella del mondo è che sembra quasi che non possano vivere senza i difetti altrui. Io, per esempio, adoro ruttare davanti alla TV ma lavoro con le donne da quasi 25 anni. E a volte mi chiedo: sono masochista o sognatore?

lunedì 25 ottobre 2010

Le nuvole della sconfitta

Dedicato a quelli che ripartono sempre e comunque

“Vanno, vengono… Ogni tanto si fermano… E quando si fermano sono nere come il corvo, sembra che ti guardino con malocchio…”. Anni fa Fabrizio De André usò queste parole per descrivere le nuvole, o almeno, alcune di loro. Quelle nere, quelle buie. Ci sono giorni in cui le senti arrivare prima che si manifestino, molto prima. A volte non ti avvisano neppure. Basta il tuo sesto senso. Lo sai, punto. Ti verrebbe voglia di fischiettare facendo finta di essere affaccendato con altro, come fa il ladruncolo che viene beccato al supermercato. Ma lo sai che sono lì per te. E te le devi beccare perché ci sono anche loro. Fanno parte del grande scaffale che sta al piano di sotto, quello che contiene i libri con la copertina brutta (vedi Aria, fuoco e terra). Avanti stronze! Sono pronto…

E’ domenica mattina. Il giorno dopo la prima sconfitta. La sveglia non suona, magra consolazione. In realtà la “maledetta” non trilla per spirito di sopravvivenza. Sa benissimo che in certi giorni è meglio per lei. E appena metti le chiappe giù dal letto, sei già tornato lì. Nuvole bastarde di prima mattina. Infatti guardi fuori dalla finestra e piove che Dio la manda. Ma quello lo sapevi già, altra magra consolazione (e siamo a due). E ripensi al sesto senso che hai avuto il venerdì, il giorno dell’ultimo allenamento. Qualcosa di strano che, forse, avevi avvertito solo tu. E che ti aveva già fatto incazzare. Il sabato mattina avevi provato a fischiettare come il ladruncolo di prima dicendoti “Sei uno smidollato pessimista!”. Poi arriva il pomeriggio. Mancano pochi minuti alla fine del riscaldamento. Vedi le tue bimbe e pensi “C’è qualcosa che non va… Andate via, nuvole del cazzo!”.

Inizia la partita, porti a casa il primo set in rimonta. Dai che se ne sono andate! Ma lo vinci con una fatica disumana. Eppure sei carico, vigile e hai idee. Ti ci vorrebbe solo una siringa per iniettare i tuoi argomenti nelle gambe delle bimbe. Ma non siamo a Hollywood. E le loro gambe faticano. La testa più di tutto. Tu guardi all’insù e le vedi. Ferme e torve. Forse le hanno viste anche loro e hanno paura. Questione di abitudine ai temporali.
Ho capito! Ci vuole la danza del sole. Ma come minchia si balla la danza del sole? Nei documentari parlano solo di quella della pioggia. Che idea stupida… Time-out a manetta, cambi su cambi… Niente! E allora parti con i tuoi soliti deliri sull’orgoglio, sulle palle da tirar fuori (anche se sono femmine). Insomma… quella roba lì. Arriva il sussulto. Torna la voglia di combattere. Denti affilati e core de’ marmo. Ma non basta. Prendi cinque punti di fila in trenta secondi e vanifichi quindici minuti di camminata sulla corda come fanno gli equilibristi al circo. PATAPEM! Tutti giù per terra. L’ultimo set se ne va come il vento d’inverno. Umido e freddo. Fine delle trasmissioni.

In pizzeria torni a fare il brillante perché non vuoi infierire. In fondo è solo una partita. E’ un gioco. Ma non per te. I capelli bianchi però aiutano a fingere (a fin di bene). Loro sorridono, tutti in compagnia. Pizza, birra e gelato = 10 euro. Neanche male. “Sono la tua coscienza. Fai il bravo e sorridi anche tu, pirla…”.

E’ lunedì. Tra qualche ora te le ritroverai davanti. E sai benissimo che si aspettano da te la via da seguire. Ed è giusto così. E’ il tuo mestiere. Devi di nuovo indossare il vestito del filosofo in scarpe da ginnastica. E’ ora di rialzarsi. Subito, sempre e comunque. E si riparte da una frase. Quella che avevi fatto leggere il sabato. Perché quella è la via.

“Devi sapere che puoi vincere.
Devi pensare che puoi vincere.
Devi sentire che puoi vincere”.
(Sugar Ray Leonard)

lunedì 18 ottobre 2010

Aria, fuoco e terra

Dedicato agli inquieti che cercano un senso

Aria.
Penso che ogni tanto dovremmo fermarci e mettere il naso all’insù.
Penso che ci sono giorni in cui non vorremmo neanche alzarci dal letto perché sappiamo già che giorno sarà. Proprio in quei momenti, invece, dovremmo uscire a farci baciare dal sole e dire semplicemente “grazie”.
Penso che ogni individuo che arriva nel nostro piccolo cosmo abbia un senso. Tutti ce l’hanno. E non solo quelli che rispettiamo.
Penso che il cuore sia come una libreria con due grandi scaffali. Il piano di sopra contiene libri di sogni, speranze, amori, ricordi e condivisione. E tutti hanno una bella copertina. Li aggiungiamo, li spostiamo, li spolveriamo, li rileggiamo. Il piano di sotto contiene libri degli stessi argomenti. Cambia solo la copertina. Ma ci sono e ci devono essere anche quelli.
Penso che un abbraccio sia il più candido e sincero dei gesti. Un bacio si riesce a dare anche senza un perché. Un abbraccio no. Chi abbraccia vuole concedersi.
Penso che il sorriso sia come un piccolo fiore di campo che dovremmo regalare e regalarci un po’ più spesso. Senza se e senza ma.
Penso che un albero i cui rami si muovono cullati dal vento sia come un bambino. Assorbe umori, sputa le schifezze e quasi sempre ci restituisce ossigeno puro.

Fuoco.
Penso che a volte il mondo faccia di tutto per far sì che se ne osservi la parte peggiore. E non capirò mai il perché.
Penso che i media facciano di tutto per descrivere la terra come un mondo di mmmerda (sì, con tre m). E ne capisco il perché. I greggi impauriti sono più facili da controllare.
Penso che l’audience sia una specie di mostro con tante teste ma con un unico cervello. E dovrebbe stare all’inferno, se ne esiste uno.
Penso che spiare dal buco della serratura sia come una malattia. Siamo diventati una società di guardoni. I dottori ci sono ma sono come sedati. Basterebbe rifiutare il farmaco, loro dovrebbero intendersene.
Penso che a volte il destino è di un bastardo unico. E non puoi spiegartelo.
Penso alla persona che ha inventato la frase “se potessi tornare indietro, rifarei tutto quello che ho fatto”. Si meriterebbe delle gran testate sul naso. Ipocrita.
Penso che la pornografia “vera” non sia quella di culi e tette. Quella vera sta spesso nella domanda di un giornalista verso una madre che ha appena perso una figlia. “Signora, come si sente?”. Chissà… Un giorno manderanno in diretta anche la sberla che il giornalista si è preso in piena faccia.

Terra (la mia).
Penso che ognuno si scelga la sua terra, il luogo dove poggiare i piedi con forza.
Penso che valga sempre la pena concedersi. Nonostante gli sberloni che a volte ti tornano indietro. Scoprire le persone vuol dire rischiare. E a me piace.
Penso che ci sia tenerezza nello sguardo di una mia giovane atleta che si gira verso di me per ricevere approvazione con gli occhi. Ma vorrei che non lo facesse.
Penso, invece, di essere in paradiso quando la stessa giovane atleta mi guarda e, anche se non me lo dice, pensa “ho capito perché. Grazie”. Quello vorrei che facesse!
Penso che lo sport sia come un medico che ha mille braccia come un’immensa piovra. Sempre disponibile ad abbracciare tutti. Ma niente farmaci, solo pillole di tolleranza e voglia di superarsi. Sempre.
Penso che sparare cazzate stia diventando il mio forte. Ma ne ho bisogno come una droga. Ogni giorno di più.
Penso che, per oggi, sia arrivato il momento di rimettermi la camicia di forza. Torno a fare la brava “pecora” (è una bugia ma non ditelo a nessuno).