lunedì 30 agosto 2010

Il sogno e l'angelo biondo

Dedicato ad un’amica alzatrice

Settembre 2002. In quel periodo, oltre alla pallavolo, era una piccola casa editrice a darmi da mangiare. Tony Giannotti, Coordinatore Editoriale della Rivista “Hi-Tech Volleyball”, o almeno su quelle pagine c’era scritto così. Un incarico a metà strada tra “giornalaio” e “giornalista”. Ma per me, era un gran bel modo per occuparmi sempre di pallavolo, seppur in un altro contesto. E adoravo quel lavoro.
In quel mese di settembre, esattamente il 15, l’Italia al femminile divenne per la prima volta Campione del Mondo, battendo in una finale alla morte gli Stati Uniti per 3-2. Bisognava celebrare l’evento. E il mio Editore mi concesse, come spesso faceva, il privilegio di poter scrivere l’Editoriale. “Fai tu” mi disse. Cominciai a scrivere.

Mentre cercavo le parole giuste, però, il mio pensiero correva ad un’amica, pallavolista anche lei. Alzatrice, per la precisione. Un paio di mesi prima, il più bastardo dei destini aveva deciso di interrompere la sua vita (e quella del suo fidanzato) in un tragico incidente. Aveva poco meno di trent'anni.
E allora, con gioia e tristezza nella testa e nel cuore, mi venne fuori un articolo “diverso”. Era come se volessi prolungarle la vita per qualche attimo. Un’ultima e piccola chiacchierata tra me e lei. Un ultimo piccolo regalo ad un angelo biondo. Ne venne fuori questo.

“Obiettivo: migliorare il 5° posto del mondiale ’98. Risultato: Campioni del Mondo 2002! Un sogno, una favola, un’impresa. Nomi, aggettivi, ricordi che non bastano mai a comprendere del tutto ciò che è successo in quel di Berlino lo scorso 15 settembre, ma che ha origini assai lontane. Che altro: parole come buio, a rappresentare la preoccupante sconfitta con Cuba, e luce, come il luccichio di dodici medaglie d’oro tutte in fila, ma anche vocaboli che possono identificare schemi di muro pronti a fermare bordate altrui (per dettagli chiedere a Bonitta docet). Non ce ne vogliano i poeti della penna ma noi, per festeggiare il lieto evento, butteremo lì anche qualche considerazione per gli operatori della “manata”.

Come dici? Ho imparato a scrivere in italiano? Sei sempre la solita. Ma hai visto che roba ‘ste fanciulle? Lo so, lo so che le hai viste anche tu. La tua preferita? Facile: “Leo” Lo Bianco, alzatrice come te… La mia? Paolina Cardullo, l’emblema dell’atleta normale.

Un gioco alla maschile quello dell’Italvolley in rosa: un opposto vero che fa del male in 1^ e 2^ linea (Togut), un’alzatrice “spugna” (Lo Bianco, come la ama definire Bonitta), due bande-ricettori giovani ma allo stesso tempo già esperte (Piccinini e Rinieri), due centri con muro e 1° tempo versione certezza (Leggeri e Mello) e un piccolo grande libero che cambia i centri nel giro dietro (Cardullo, vent’anni appena). Cambiando l’ordine dei fattori (Mifkova di banda, Sangiuliano ad alzare il muro e Paggi, Anzanello e Borrelli a completare il quadro) il risultato non cambia. Ma più di tutto una mentalità da corazzata “pensante” (non ce ne voglia il vecchio Karpol), in grado, durante l’intero arco del mondiale, di modificare le sue priorità e scelte di gioco. Che poi in finale il braccio armato della Togut abbia affondato muro e difesa degli USA, non vuol dire che i meriti dell’oro stiano tutti lì. A nostro parere una cosa è certa: questa vittoria dice che la pallavolo femminile di vertice ha portato definitivamente tattica e psicologia di gruppo in cima alle sue priorità.

Parlo sempre di pallavolo? E che devo fare, adesso mi pagano anche per farlo! Non come anni fa: insieme in palestra, io e te, per il puro divertimento di esserci. Certo che me lo ricordo il tuo numero di maglia: 10, dico bene?

E infine il Coach: Marco Bonitta da Ravenna. Mascella forte e idee chiare. Un tecnico già vincente che ha traghettato questa Nazionale verso la consacrazione internazionale. Ci ha messo sicuramente del suo, il buon Marco, difendendo con forza le sue scelte. Difficile, ora, non dargli ragione. E se è vero che nello sport d’élite contano solo i risultati…

Li saluto io per te? Certo che posso! Sono convinto che, da lassù, tu abbia festeggiato almeno quanto noi, angelo mio. Ed è per questo che mi sono preso la licenza di regalare il tuo splendido sorriso anche a loro…
Ciao, Berenice”.

martedì 24 agosto 2010

Quando uno s'incazza...

Dedicato a chi non si non perde mai d’animo

Ho conosciuto Mauro Berruto una decina d’anni fa. Avevamo (e abbiamo ancora) in comune tre cose: il mestiere di allenatore (lui però allena in serie A), la passione per la penna (lui però ha scritto due libri) e il “mito” dell’Olimpiade (lui però ci è andato). Insomma… 3-0 per lui. Io però sono più bello. 3-1 il finale.

Se vuoi raggiungere un obiettivo, devi essere fortemente determinato. Chi fa l’allenatore, questa frase l’avrà ripetuta ai suoi atleti migliaia di volte. E prima ancora, se ha fatto sport, se l’è sentita ripetere migliaia di volte da chi lo ha allenato. Ma che cos'è davvero la determinazione nello sport? Forse si dovrebbe partire prima dal concetto di “motivazione”, vale a dire dalla molla che ti spinge a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Quindi ciascuno si merita la sua. E via così...
Nel tentare di riordinare i miei soliti deliri sull’essenza di quello che mi dà da vivere, mi sono imbattuto di nuovo in uno dei due libri di Mauro. L’avevo letto alcuni anni fa e mi è ritornato fra le mani come se lo stessi cercando. A volte la polvere che attacca le librerie è tua alleata.
Quella che sto per farvi leggere, è una storia vera. Di un atleta vero, accaduta tanti anni fa. E’ la storia di un uomo che il destino bastardo voleva fregare, ma non ci è riuscito. Questa è la storia di Harrison Dillard.

“Harrison Dillard era il più grande specialista al mondo dei 110 ostacoli, oltre 100 vittorie consecutive. Ma la spietata follia dei Trials lo aveva fatto inciampare su una barriera e lo aveva escluso dalla partecipazione ai Giochi Olimpici di Londra. Non perse neanche un secondo del suo tempo a disperarsi, a imprecare contro la sfortuna e le ottuse regole, a pensare a quello che poteva essere e che invece non sarebbe stato. Si iscrisse, negli stessi Trials, a una gara a lui quasi sconosciuta: i 100 metri. Arrivò secondo e si conquistò il diritto di andare ai Giochi dove vinse, in quella specialità, l’oro olimpico. Quattro anni dopo, a Helsinki, ristabilì un’assoluta giustizia sportiva, vincendo il suo oro nei 110 ostacoli. Vai a capire, certe volte, la differenza che passa tra pensiero positivo e incazzatura”.

tratto da:
Mauro Berruto - Andiamo a Vera Cruz con quattro acca - Bradipolibri

lunedì 16 agosto 2010

Il bambino e la palla

Dedicato agli adulti che non giocano più

La vide arrivare mentre esplorava il mondo a gattoni. Era tonda e rimbalzando si fermò di fronte a lui sorridendo. Era bella, colorata ma il bambino non sapeva bene cosa fosse. Gli sembrava di averne viste altre ma quelle erano piccole, riuscivano a stare nella sua piccola mano. Questa era diversa, era grande. Ma, soprattutto, questa era ferma di fronte a lui e sorrideva. Quasi come se aspettasse un suo cenno per animarsi del tutto. Era in attesa e il bambino lo sapeva, quindi non si fece pregare.

“E tu chi sei?” chiese affascinato il bimbo.
“Sono una palla! Anzi, sono la palla più bella del mondo!” disse lei con aria fiera ed impettita, accorgendosi del suo stupore nel vederla. “Sono qui per farti giocare. Ti va l’idea?”.
Il bambino ci pensò su e, altrettanto impettito, chiosò: “Io ho già tanti giocattoli. Tu cosa mi dai se gioco con te?”.
La palla, che oltre ad essere bella era anche molto saggia, pensò tra sé e sé: “Questo è quello giusto. Si… Si… Questo bimbo mi piace proprio. Non cammina ancora ed è già sicuro di sé”.
“Se vorrai, ti darò la cosa più preziosa che ho. Potrei essere la “tua” palla. Ma ad una condizione: dovrai avere cura di me. Se questo non accadrà, io non sarò più in grado di farti divertire e dovrai buttarmi via”.
Il bambino era estasiato da quelle parole. La palla più bella del mondo gli parlava, gli sorrideva e, soprattutto, poteva essere sua. Com’era possibile che un giocattolo potesse parlare? Gattonando verso suo papà, gli tirò i calzoni cercando di spiegargli quello che era successo. Ma le sue parole, per il mondo degli adulti, erano solo versi e urla. E così suo papà non capì. “Si… Si… La palla... Bella! Di chi sarà? Mah…. Giocaci pure”.
Il bambino non si perse d’animo e finalmente capì. Solo la palla poteva capirlo, e solo con lui la palla si animava. “Affare fatto! Sarai la mia palla e io avrò cura di te”.
 
Da quel momento iniziò un rapporto magico. Erano sempre insieme, lui e la palla. Passavano gli anni ma era tutto come il primo giorno del loro incontro. Giocavano per ore e ore, e la palla non si rovinava mai. Ogni sera il bambino la puliva e la lucidava con cura e delicatezza. Prima di addormentarsi, parlava con lei e le raccontava tutto quello che gli capitava durante la giornata. Aveva tanti amici ma lei… Lei era speciale. Lei era la fata delle “sue” fiabe. Saggia, divertente e luccicante.
 Poi il bambino diventò ragazzo. Le voleva sempre bene ma cominciò a crescere, ad avere altri interessi, a frequentare sempre i suoi amici. Arrivò anche la prima fidanzata. Giocavano insieme sempre più raramente ed il bambino, diventato ragazzo, non parlava più con lei. La palla cominciò ad invecchiare, confinata sempre sotto il suo letto. Impolverata e inanimata, diventò presto un oggetto come tanti. E si ritrovò all’interno di una scatola in una cantina vecchia e umida insieme ad altri oggetti, impolverati e inanimati come lei.

Chissà quanto tempo passò ma un giorno la scatola si aprì. Due mani grandi e forti la afferrarono. La palla le riconobbe e aprì gli occhi. Il viso davanti a lei era quello del bambino ormai adulto.
“Hai ragione ad avercela con me” disse lui. “Ti ho dimenticato per molto tempo, troppo. Ma sono tornato e sono qui a chiederti se mi vuoi ancora”.
La palla non rispose e aspettò. Sapeva che c’era dell’altro. Lei era saggia, lei sapeva. Lui continuò: “Sono qui per chiederti di poter giocare ancora con te e per proporti un regalo”. Due piccole mani la presero con delicatezza, come se stessero reggendo la cosa più preziosa del mondo. Gli stessi occhi in una faccia da bambino.
“Ti presento mio figlio. Vuoi essere la “nostra” palla?”.

Il bimbo che non gioca non è un bambino ma l’adulto che non gioca ha perso per sempre il bambino che è dentro di sé (Pablo Neruda).

mercoledì 4 agosto 2010

Mi sono montato la testa

Ho sempre avuto poche idee e per giunta confuse. Scrivere, però, mi è sempre piaciuto. Anni fa addirittura mi pagavano per farlo. Poi è arrivato il famoso clic, l’ingranaggio che scatta. Mi era tornata la “voglia sopita”, quella di far uscire un pò di pensieri tutti miei. Ma non sapevo bene come. Avevo prima pensato ad un libro, poi ad una newsletter e, infine, ho visitato diversi blog. Mi ero detto che fosse complicato crearne uno. Tutte scuse buone per non partire mai. Ero immobile davanti ad una porta spalancata ma non riuscivo ad uscire, bloccato sul ciglio. Poi, grazie a Nino, ho scoperto un mondo sommerso che mi ha sorpreso. Un mondo fatto di persone note e meno note, di desideri, di facce, di idee, di passioni. O, più semplicemente, un universo di uomini e donne che lanciavano milioni di sassolini in uno stagno grande come un oceano e oltre…

Deliri di un orso grigio vuole essere un piccolo recinto in cui far pascolare i miei deliri, le mie storie, i miei sogni da malato di sport, quale sono sempre stato. Ma è un piccolo recinto con un cancello senza chiave né lucchetto, basta tirare la maniglia e chiunque può entrarci. Non so bene cosa ne verrà fuori ma so anche che è un gran bel modo per sentirsi liberi. E si sa che i veri orsi vivono in cattività...

Buon viaggio