lunedì 27 dicembre 2010

Il volo dell'aquila

Dedicato a quelli che hanno paura

Voglia di guardare all’insù. Voglia di volare alto. Voglia di mettere le ali ai nostri pensieri. Voglia di soprannaturale. Quando questo accade siamo in uno stato di incoscienza vigile, come alla ricerca di un luogo perduto. Un piccolo mondo che non è terreno e del quale vorremmo essere cittadini, almeno per qualche piccolo istante. Un paese immaginario pronto ad accogliere anime inquiete alla ricerca di risposte.

Questo piccolo pianeta fantastico è la terra delle risposte. Tutti, qualche volta, desidereremmo abitarci. C’è chi lo trova nella fede, chi in una persona, altri ancora nel denaro. Quindi, dal proprio Dio, ciascuno ottiene (o pensa di ottenere) le risposte che cerca. Pochi, per fortuna, smettono di cercare e si perdono. L’oblio.

Ma se io sono l’Orso Grigio, chi è il Dio degli animali? In quale mondo vive? Così come gli uomini, anche gli animali guardano spesso al cielo. E allora deve essere lì il suo territorio, lì ci sono le risposte. E’ chiaro. Fiera, bella, sopra le teste terrene. La regina del cielo. Orso cerca Aquila… Dove sei?



“Perché punti il naso sopra la tua testa anche oggi, orso inquieto?”
“Ho bisogno di te. Cerco risposte”.
“Non essere stolto, orso. Io non do risposte. Io volo e osservo. Tutto qui”.
“E quando da lassù mi osservi, cosa vedi?”.
“Vedo un animale che tutti dipingono come un essere rude, forte, solitario”.
“Non ti ho chiesto cosa vedono gli altri in me. Ti ho chiesto cosa vedi tu”.
“Ecco. Adesso ti riconosco. Sai essere anche un animale intelligente”.
“Che risposta è?! Cosa vuol dire che so anche essere intelligente?”
“Sempre impaziente, il mio amico… Rude, forte, solitario. Sono modi di essere che servono per proteggerti. Un po’ come la tua pelliccia, ti protegge dal freddo. Ma tu, in realtà, non sei questo. O, almeno, a volte non vorresti esserlo”.
“Già… Meno male che qualcuno se n’è accorto. Vedi? Tu lo hai capito ma stai lassù”.
“Io forse so osservare meglio di altri. Ma per me è più facile. Sono un’aquila. Gli animali del tuo mondo avrebbero bisogno che tu ti concedessi un po’ di più. Dì loro quello che senti”.
“Nel nostro mondo anche un orso, se abbassa le difese, può correre seri pericoli. E tu sai bene cosa vuol dire, regina del cielo”.
“Certo che lo so. Ma se non vuoi concederti perché ti lamenti?! Hai paura?”
“L’ho già fatto. E mi sono fatto del male. Ora ho paura e tiro fuori gli artigli. Mi difendo. E’ meglio così”.
“Caro orso grigio, se quello che gli altri vedono in te ti soddisfa, allora tieni sempre gli artigli aguzzi. Ma il mondo teme gli artigli. Se, invece, vuoi che intorno a te ci sia meno paura, comincia tu”.
“E se poi sbaglio? Se abbasso la guardia e incontro qualche animale più furbo di me?”
“Il rischio c’è sempre. Sta a te decidere se ne vale la pena. Un modo ci sarebbe per correre qualche rischio in meno. Non è un metodo infallibile ma spesso funziona”.
“E quale sarebbe?”
“Gli occhi. Quelli non sanno mentire. C’è chi dice che siano collegati direttamente al cuore. Guarda quelli e abbi cura di te”.

Se n’è andata. Chissà se tornerà a farmi visita. Intanto mi levigo un po’ le unghie ma non troppo. Una cosa è certa. Il cielo ha sempre qualcosa di magico. Vola Aquila, vola… E torna a trovarmi, quando puoi.

lunedì 6 dicembre 2010

Mani

Dedicato alle sensibilità nascoste

Mani grandi, mani piccole, mani che cercano, mani che afferrano, mani costrette, mani che parlano…

Mani segnate di un vecchio che raccontano la loro vita. Ad ogni ruga una canzone. Come un menestrello in una piazza con intorno un mondo rapito dalle sue storie.
Mani chiuse di un neonato che esplora quello che ancora non conosce. Ma fiduciose di sapere. Come davanti ad una grande giostra con milioni di luci.
Mani titubanti di una donna che ha sofferto. Come un cieco che si muove in una stanza buia perché non si fida di quello che può capitarle.
Mani nervose di un uomo che non sa che fare. Come un tuffatore che deve lanciarsi dallo scoglio più alto. E non gli era mai successo. Non così in alto.

Mani che si tendono per cercare aiuto. Come un naufrago verso chi sta sulla scialuppa.
Mani felici che si afferrano nel girotondo. Il gioco della gioia con parole orribili “Giro, girotondo. Casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra…”. Il controsenso.
Mani che si concedono nell’abbraccio. Come un grande letto di ovatta. Morbido e rassicurante.
Mani che si addolciscono nella carezza. Come madri premurose che vestono il loro bimbo per il primo giorno di scuola.
Mani furenti che lanciano schiaffi. Come animali incattiviti che difendono il loro cibo da ladri indegni.

Mani con cinque pezzi diversi. Cinque storie, ognuna delle quali unica. E lunghe linee al centro, romanzi di vita che qualcuno finge di leggerci.
Mani e dita che ascoltano la musica. Si muovono, battono, picchiettano. Come un uccello alle prese con il suo nido per l’inverno. Ma con un ritmo preciso.
Mani che parlano per chi voce non ha. Come alberi in una giornata di vento. Parole diverse ma spesso molto più assordanti.
Mani operose che costruiscono cose. Come tanti piccoli dei che fabbricano il loro minuscolo mondo nel quale rifugiarsi.

Mani che applaudono lo sport. Come a voler dire “io c’ero”.
Mani al cielo. Come a voler urlare “io sono arrivato fin lassù, e non mi prenderete mai”.
Mani chiuse, strette in un pugno. Come a dirsi “io non mollo, cazzo! Mai!”.
Mani che grattano. Perché la speranza è una cosa buona.

lunedì 29 novembre 2010

Sogni olimpici

Dedicato a Giorgia

A volte scatta qualcosa nella nostra testa. La chiamiamo “associazione di idee”. Qualche giorno fa, un’atleta che allenavo non molto tempo addietro ha pubblicato su FB una frase che mi ha attribuito. Uno dei miei soliti deliri che devo aver sputato fuori dalla bocca in uno dei tanti giorni in cui cercavo di dare un senso a quello che facevo: “L’unica battaglia che non puoi vincere è quella che non vuoi combattere”. Non c’è niente da fare. Dopo venticinque anni, qualcosa o qualcuno mi riporta sempre sulle solite idee fisse. Quelle dei matti, ricordate? E chissà perché ho pensato di nuovo allo spirito olimpico, quello dei 5 cerchi. Il sogno per eccellenza, almeno che per chi fa sport. Così mi sono ritrovato tra le mani un articolo che avevo scritto esattamente dieci anni fa. Una celebrazione tutta mia di chi ha fatto del suo sogno una realtà meravigliosa. Pazzesco come, senza volerlo, ho ritrovato frasi scritte di recente. Esattamente identiche a quelle di due lustri fa. Correva l’anno 2000 e si erano appena concluse le Olimpiadi di Sydney. L’orso grigio scriveva…

“Partecipare ai Giochi con la consapevolezza di essere parte dell’evento sportivo per eccellenza, di rappresentare la più grande festa di popoli e razze del pianeta e, per questo, vivere la sfida non contro un’altra bandiera bensì contro sé stessi. Due mesi or sono, questi pensieri circolavano nella nostra mente. Si chiude il sipario: il cuore rallenta e la testa cammina...
Queste due settimane insonni ci hanno convinto che la speranza è una cosa buona, che la tenacia è linfa vitale, che lo sport sa essere magico. Gli occhi… gli occhi di molti atleti hanno raccontato al mondo intero, senza bisogno di inutili parole, che la gloria più grande non sta nel battere un avversario ma nel vincere i nostri limiti, le nostre insicurezze, i nostri pregiudizi. Ci sarebbero tanti nomi da citare: ne scegliamo solo due, in rappresentanza di un popolo di uomini e donne che vorremmo fossero nostri amici, anche solo per un giorno.

Steve Redgrave, classe 1962, pochi capelli e cuore da eroe. Dislessico e diabetico, cinque iniezioni al giorno di insulina. Gli ignoranti del canottaggio (noi compresi), vedendolo giungere a Sydney, avranno probabilmente pensato “non può essere un atleta, sarà un dirigente”. Ad Atlanta ‘96, dopo la sua quarta medaglia d’oro in altrettante edizioni olimpiche, disse “… se risalgo su una barca, sparatemi!”. Di anni ne aveva trentaquattro. Non gli basta, il richiamo dei cinque cerchi è troppo forte. La terra “down-under” si inchina al suo quinto oro olimpico, insieme a tre giovani atleti di cui potrebbe essere il padre. I nostri occhi sono umidi, i suoi guardano i figli in tribuna.

Antonella Bellutti, classe 1968, occhi buoni e gambe d’acciaio. Nel ‘94 abbandona l’atletica leggera, suo primo grande amore (è un’ottima ostacolista), e sale per la prima volta su di una bicicletta, attrezzo con cui probabilmente, fino al giorno prima, si recava alla pista di atletica o a comprare il giornale. Due anni dopo vince il suo primo oro olimpico ad Atlanta, e lo dedica a coloro che sognano uno sport pulito. A Sydney scende mestamente dal podio nella sua gara “forte”: l’inseguimento individuale su pista, l’oro di Atlanta. Sembra distrutta, ma non è così. Risale in bicicletta qualche giorno dopo nella gara a punti. È un trionfo! I suoi occhi non smettono di piangere, i nostri anche.

Che dite, è solo retorica tutto questo? Beh, allora diciamo che l’Italia sarà anche un popolo di sognatori ma, alle volte, i sogni diventano realtà. Dedicato a tutti gli sportivi che, almeno una volta, hanno sognato. Grazie di cuore”.

lunedì 22 novembre 2010

Non può piovere per sempre

Dedicato a chi si ostina a credere

Nessuno sembrava darle retta e lei si arrabbiò. A modo suo. Ne fece scendere ancora, e poi ancora, e poi ancora… La città era allagata, la gente stanca e cupa ma, nonostante tutto, uomini e donne si limitavano a camminare sotto l’ombrello. O a continuare a lavorare, ad andare a scuola, a lamentarsi di quanto fossero esausti. O, più semplicemente, a spiare attraverso le tende mentre l’acqua continuava a scendere e maledicendo il mondo intero. Ma nessuno si chiedeva il perché. Nessuno poteva o voleva capire. “E allora continuerò fino a quando qualcuno non capirà” disse tra sé e sé. “E’ mai possibile che nessuno in questa città si accorga di quanto poco possa bastare per far tornare mio fratello?” La pioggia aveva deciso che il mondo, attraverso di lei, si sarebbe accorto dei suoi errori. Sorella pioggia, stavolta, si era incazzata davvero.

Se ne stava nascosto dietro alle montagne. Ed era la vergogna a tenerlo nascosto. Lui si era fidato degli esseri umani ma loro sembravano come paralizzati, vuoti, assenti. Continuava a rimuginare le stesse parole: “Ve lo avevo detto… Il mio calore in realtà è il vostro. Dipende da voi”. Sua sorella era stata saggia e lui lo sapeva. Fratello Sole aveva scaldato la città per lunghi anni ma, quando Sorella Pioggia si era arrabbiata in quel modo, non c’era stato nulla da fare. Per spazzare via le nuvole, le grandi alleate di Sorella Pioggia, Fratello Sole aveva bisogno della gente. Solo uomini e donne potevano farlo tornare e c’era solo un modo perché accadesse. Era il loro cuore a doverlo chiedere. Il cuore della gente.

Aurora se ne stava nella sua camera da letto. Non poteva uscire, continuava a piovere e quindi ingannava il tempo. Ma sistemare i giocattoli, pettinare le sue splendide bambole e avere cura del suo piccolo orso Smily non bastava più. “Perché la pioggia è così tanto arrabbiata con noi?!” continuava a ripetersi. E fu proprio in quel momento che sentì una voce. Era Smily. Il suo piccolo orso si animò. Non poteva credere ai suoi occhi. Se lo mise sulle ginocchia e, con occhi sgranati dallo stupore, stette ad ascoltarlo. “Tu hai un nome speciale. Tu puoi farlo tornare. E’ solo nascosto e tu sai dove. Se lo trovi, lui tornerà. Non può piovere per sempre”. E fu così che Aurora, sparì.

La città era sempre più triste, ed i genitori di Aurora disperati. La loro piccola era svanita nel nulla. Nessuno l’aveva vista, nessuno sapeva dove fosse. Solo un biglietto sul comodino, nient’altro. “Non può piovere per sempre”. Tutta la città si era mobilitata per trovarla. Cartelli dappertutto, telegiornali, radio… Niente. Sparita. Ma all’improvviso accadde qualcosa di inaspettato. La pioggia cessò di colpo, come una mano divina che chiude il rubinetto dell’acqua. In principio fu una luce fioca, poi un urlo. “Guardate!!! Là… Verso la strada che conduce alle montagne!!!”.

Fratello Sole stava lentamente tirando su la testa, come un cucciolo che si stiracchia dopo un lungo sonno. All’orizzonte, una sagoma di bimba che sorrideva come nessuno era stato in grado di fare in quei lunghi giorni di pioggia. E quando fu più vicina, tutti si accorsero che Aurora stava tornando a casa con un piccolo orsacchiotto in mano.

martedì 9 novembre 2010

La chiave d'ingresso

Dedicato ai nuovi giovani e ai vecchi tromboni

Quest’anno io e la mia malattia festeggiamo le nozze d’argento. Alleno da venticinque anni. Babba bia! Tanta roba… Ma non mi sento per niente appagato, stanco o passato. La candela è sempre accesa. Anzi, mi sento più utile ora che a vent’anni. E sono sempre più curioso. Ho sempre una gran voglia di capire, di confrontarmi, di lanciare nuove sfide a me stesso e al mondo. Il merito è tutto delle mie “bimbe”, nuove leve da far crescere, nuove giocatrici che cerco di aiutare a diventare “Atlete” (con la A maiuscola). E’ un viaggio complicato, pieno di difficoltà, di randellate dietro la schiena. Ma con tantissimi momenti di soddisfazione impagabili.

E dopo venticinque anni c’è ancora una cosa che mi fa incazzare come una bestia. Una frase in particolare. Una delle tante frasi fatte che noi allenatori elaboriamo con il nostro cervellino “so tutto io”, le facciamo prendere l’ascensore con direzione piano di sotto ed eccola uscire dalla nostra bocca. DIN! Le porte si spalancano. La stronzata delle stronzate: “Le nuove generazioni di giovani non hanno voglia di far niente, niente fatica. Non come una volta… Una volta era diverso…”. E ridaje con la solita tiritera che il passato era meglio. La cosa ancora più assurda è che questa frase, spesso, viene pronunciata da colleghi che allenano da pochissimi anni. Ma che ne sanno? Basta che un vecchio coach “trombone” pronunci la minchiata e giù tutti a fare “sì” con la testolina, come tante brave pecorelle.

La verità è un’altra. I giovani delle generazioni passate non erano meglio. Erano semplicemente diversi da quelli di oggi. Capito, vecchi rincoglioniti? Diversi, non migliori. Sembra quasi che vent’anni fa bastasse entrare in palestra per un solo giorno ed, improvvisamente, i giovani vedessero la luce. E come per incanto, la pallavolo diventava la loro passione, la loro ragione di vita. Erano improvvisamente disposti ad allenarsi tutti i giorni senza fiatare, a spezzarsi la schiena con il sorriso sulle labbra, a mettersi sull’attenti come tanti soldatini. Senza che noi allenatori, dirigenti o addetti ai lavori facessimo nulla. Tutti unti dal Signore. Amen! Andate in pace. Anzi, andate un po’ a cagare, già che ci siete…

Io di pallavolo credo di capirne ancora poco. Non credo di essere poi così bravo, anche dopo venticinque anni. Ho tanto ancora da imparare. Certo che i tempi sono cambiati, non sono mica imbecille. Ma una cosa l’ho capita. Nel mio lavoro, la sfida sta nel trovare la chiave d’ingresso. Quella che serve per entrare nella testa dei nuovi giovani, oggi come allora. Li vogliamo più indipendenti e meno mammoni? Proponiamo loro un modello diverso e lavoriamoci sopra. Anche loro hanno bisogno di capire. E se capiscono, ti danno anche l’anima! Difficile? Faticoso? Certo che lo è! Ma se non siamo disposti a farlo, cosa ci andiamo a fare in palestra? Ci lamentiamo che i nostri figli vogliono la pappa pronta ma siamo noi a dar loro questo modello. I giovani sono come delle spugne, assorbono il mondo che li circonda. E lo fanno loro. Vogliamo combattere i modelli negativi? E allora diamo ai giovani delle chances, proponiamo percorsi alternativi e su le maniche.

Vincere? Certo che mi piace! Vincere è uno degli obiettivi ma non può essere il solo modello. Ci sono momenti che mi danno ancora più gusto. E vi faccio alcuni esempi. Chi non mi conosce bene, a volte, mi scambia per un pazzo vedendomi lavorare in palestra. Chi poi impara a conoscermi pensa che io lo sia davvero. Eppure tra le mie nuove bimbe sono sempre più numerosi gli episodi in cui sono loro a chiedermi di potersi allenare di più. Mi mandano sms chiedendomi il permesso di allenarsi con un’altra squadra. A volte, sono io a proporre loro di andare a fare panchina nel gruppo superiore. E non dicono mai di no. Anzi, accettano con piacere. E allora mi chiedo: ma siamo così sicuri che i giovani di oggi non abbiano voglia di fare un cazzo?

lunedì 1 novembre 2010

Testa e croce

Dedicato a chi ci si riconosce

Questo potrebbe essere un film. Forse un po’ strano ma pur sempre un film. Una specie di lungometraggio che assomiglia ad un videogame. I protagonisti sono gli uomini e le donne. Sono seduto di fronte ad uno schermo, solo. Una bellissima sala di proiezione con un’unica poltrona. Ho due monete molto particolari in mano, uomo e donna. Basta lanciarne una in aria, fermarla tra le mani e osservare. Testa o croce? Non devi neanche scegliere, non si vince nulla. E le immagini partono. Mi guardo intorno. Unico cliente, visione privata. Regista inconsapevole per un giorno. Prima le donne, moneta in mano. Trois, deux, un… fiit!

Testa (donna).
La bellezza, l’armonia e la delicatezza in un unico corpo. Un corpo capace di creare nuova vita. Come la più grande Dea dell’Olimpo. Il grande miracolo della natura. Una testa che deve sempre capire, interiorizzare. Un cervello che non si spegne mai. Mai stanca, mai doma. La donna è affidabile. Ha un cuore in grado di amare profondamente ma che vuole sempre un perché. Una forza nella mente che le permette di ripartire sempre e comunque, soprattutto nei momenti bui.
Anche in un mondo senza uomini, la donna troverebbe il modo di sopravvivere e forse anche di riprodursi.

Seconda moneta. Testa (uomo).
Un corpo spigoloso, grandi ossa e grandi muscoli. L’esatto opposto dell’armonia. L’immagine della sana forza fisica con un cuore da eterno fanciullo. L’uomo sogna, lavora, bacia anche senza un perché. Semplicemente perché gli va. Perché no?! Non sempre capisce perché non sempre gli va di capire. Non sa cos’è il rancore. L’amicizia con i suoi simili è il suo forte. E’ in grado di scalare una montagna a piedi nudi per un amico vero. In un’isola deserta troverebbe il modo per costruirsene uno (ricordate Tom Hanks e “Wilson” nel film Cast Away?). E’ tutto più grande nell’uomo, anche il cuore.

Di nuovo prima moneta. Croce (donna).
La donna non parla, interiorizza, rielabora. Si contorce. E quando parla spesso non lo fa con la persona interessata ma con l’amica di turno.
La sega mentale è il suo forte. Ha la capacità di descrivere un sassolino che rotola come la più grande delle frane del cosmo. Ama apparire. Parla con il suo corpo e il corpo le risponde. Ha un grande potere e lo sa benissimo.
Ma non sa dimenticare e te lo ricorda con i suoi tempi. Magari due mesi dopo il temporale. D’improvviso… BUM! E l’uomo non capisce.

Ultima faccia delle medaglie. Croce (uomo).
Rutta, bestemmia e scoreggia. A volte va in giro con patacche di sugo sulla maglia e se ne accorge il giorno dopo. Ma se la rimette lo stesso. E chissenefrega. Anche lui parla con il suo corpo, quasi sempre con l’organo situato al centro. Con gli altri organi fa spesso fatica.
Ha il “vaffa” sempre pronto, lo esterna spesso per poi dimenticarsene in fretta. E’ inaffidabile ma con candore. Come se fosse la normalità. Beccato come un bambino con le dita nella nutella. E la donna non capisce.

Ma lo sport in tutto questo cosa c’entra? Come cosa c’entra?! Amore, famiglia, lavoro, sport non fa differenza. Uomini e donne sono questa roba qua dal primo all’ultimo minuto del giorno. Certo, smussano angoli. Ma il grosso rimane. E la cosa più bella del mondo è che sembra quasi che non possano vivere senza i difetti altrui. Io, per esempio, adoro ruttare davanti alla TV ma lavoro con le donne da quasi 25 anni. E a volte mi chiedo: sono masochista o sognatore?

lunedì 25 ottobre 2010

Le nuvole della sconfitta

Dedicato a quelli che ripartono sempre e comunque

“Vanno, vengono… Ogni tanto si fermano… E quando si fermano sono nere come il corvo, sembra che ti guardino con malocchio…”. Anni fa Fabrizio De André usò queste parole per descrivere le nuvole, o almeno, alcune di loro. Quelle nere, quelle buie. Ci sono giorni in cui le senti arrivare prima che si manifestino, molto prima. A volte non ti avvisano neppure. Basta il tuo sesto senso. Lo sai, punto. Ti verrebbe voglia di fischiettare facendo finta di essere affaccendato con altro, come fa il ladruncolo che viene beccato al supermercato. Ma lo sai che sono lì per te. E te le devi beccare perché ci sono anche loro. Fanno parte del grande scaffale che sta al piano di sotto, quello che contiene i libri con la copertina brutta (vedi Aria, fuoco e terra). Avanti stronze! Sono pronto…

E’ domenica mattina. Il giorno dopo la prima sconfitta. La sveglia non suona, magra consolazione. In realtà la “maledetta” non trilla per spirito di sopravvivenza. Sa benissimo che in certi giorni è meglio per lei. E appena metti le chiappe giù dal letto, sei già tornato lì. Nuvole bastarde di prima mattina. Infatti guardi fuori dalla finestra e piove che Dio la manda. Ma quello lo sapevi già, altra magra consolazione (e siamo a due). E ripensi al sesto senso che hai avuto il venerdì, il giorno dell’ultimo allenamento. Qualcosa di strano che, forse, avevi avvertito solo tu. E che ti aveva già fatto incazzare. Il sabato mattina avevi provato a fischiettare come il ladruncolo di prima dicendoti “Sei uno smidollato pessimista!”. Poi arriva il pomeriggio. Mancano pochi minuti alla fine del riscaldamento. Vedi le tue bimbe e pensi “C’è qualcosa che non va… Andate via, nuvole del cazzo!”.

Inizia la partita, porti a casa il primo set in rimonta. Dai che se ne sono andate! Ma lo vinci con una fatica disumana. Eppure sei carico, vigile e hai idee. Ti ci vorrebbe solo una siringa per iniettare i tuoi argomenti nelle gambe delle bimbe. Ma non siamo a Hollywood. E le loro gambe faticano. La testa più di tutto. Tu guardi all’insù e le vedi. Ferme e torve. Forse le hanno viste anche loro e hanno paura. Questione di abitudine ai temporali.
Ho capito! Ci vuole la danza del sole. Ma come minchia si balla la danza del sole? Nei documentari parlano solo di quella della pioggia. Che idea stupida… Time-out a manetta, cambi su cambi… Niente! E allora parti con i tuoi soliti deliri sull’orgoglio, sulle palle da tirar fuori (anche se sono femmine). Insomma… quella roba lì. Arriva il sussulto. Torna la voglia di combattere. Denti affilati e core de’ marmo. Ma non basta. Prendi cinque punti di fila in trenta secondi e vanifichi quindici minuti di camminata sulla corda come fanno gli equilibristi al circo. PATAPEM! Tutti giù per terra. L’ultimo set se ne va come il vento d’inverno. Umido e freddo. Fine delle trasmissioni.

In pizzeria torni a fare il brillante perché non vuoi infierire. In fondo è solo una partita. E’ un gioco. Ma non per te. I capelli bianchi però aiutano a fingere (a fin di bene). Loro sorridono, tutti in compagnia. Pizza, birra e gelato = 10 euro. Neanche male. “Sono la tua coscienza. Fai il bravo e sorridi anche tu, pirla…”.

E’ lunedì. Tra qualche ora te le ritroverai davanti. E sai benissimo che si aspettano da te la via da seguire. Ed è giusto così. E’ il tuo mestiere. Devi di nuovo indossare il vestito del filosofo in scarpe da ginnastica. E’ ora di rialzarsi. Subito, sempre e comunque. E si riparte da una frase. Quella che avevi fatto leggere il sabato. Perché quella è la via.

“Devi sapere che puoi vincere.
Devi pensare che puoi vincere.
Devi sentire che puoi vincere”.
(Sugar Ray Leonard)

lunedì 18 ottobre 2010

Aria, fuoco e terra

Dedicato agli inquieti che cercano un senso

Aria.
Penso che ogni tanto dovremmo fermarci e mettere il naso all’insù.
Penso che ci sono giorni in cui non vorremmo neanche alzarci dal letto perché sappiamo già che giorno sarà. Proprio in quei momenti, invece, dovremmo uscire a farci baciare dal sole e dire semplicemente “grazie”.
Penso che ogni individuo che arriva nel nostro piccolo cosmo abbia un senso. Tutti ce l’hanno. E non solo quelli che rispettiamo.
Penso che il cuore sia come una libreria con due grandi scaffali. Il piano di sopra contiene libri di sogni, speranze, amori, ricordi e condivisione. E tutti hanno una bella copertina. Li aggiungiamo, li spostiamo, li spolveriamo, li rileggiamo. Il piano di sotto contiene libri degli stessi argomenti. Cambia solo la copertina. Ma ci sono e ci devono essere anche quelli.
Penso che un abbraccio sia il più candido e sincero dei gesti. Un bacio si riesce a dare anche senza un perché. Un abbraccio no. Chi abbraccia vuole concedersi.
Penso che il sorriso sia come un piccolo fiore di campo che dovremmo regalare e regalarci un po’ più spesso. Senza se e senza ma.
Penso che un albero i cui rami si muovono cullati dal vento sia come un bambino. Assorbe umori, sputa le schifezze e quasi sempre ci restituisce ossigeno puro.

Fuoco.
Penso che a volte il mondo faccia di tutto per far sì che se ne osservi la parte peggiore. E non capirò mai il perché.
Penso che i media facciano di tutto per descrivere la terra come un mondo di mmmerda (sì, con tre m). E ne capisco il perché. I greggi impauriti sono più facili da controllare.
Penso che l’audience sia una specie di mostro con tante teste ma con un unico cervello. E dovrebbe stare all’inferno, se ne esiste uno.
Penso che spiare dal buco della serratura sia come una malattia. Siamo diventati una società di guardoni. I dottori ci sono ma sono come sedati. Basterebbe rifiutare il farmaco, loro dovrebbero intendersene.
Penso che a volte il destino è di un bastardo unico. E non puoi spiegartelo.
Penso alla persona che ha inventato la frase “se potessi tornare indietro, rifarei tutto quello che ho fatto”. Si meriterebbe delle gran testate sul naso. Ipocrita.
Penso che la pornografia “vera” non sia quella di culi e tette. Quella vera sta spesso nella domanda di un giornalista verso una madre che ha appena perso una figlia. “Signora, come si sente?”. Chissà… Un giorno manderanno in diretta anche la sberla che il giornalista si è preso in piena faccia.

Terra (la mia).
Penso che ognuno si scelga la sua terra, il luogo dove poggiare i piedi con forza.
Penso che valga sempre la pena concedersi. Nonostante gli sberloni che a volte ti tornano indietro. Scoprire le persone vuol dire rischiare. E a me piace.
Penso che ci sia tenerezza nello sguardo di una mia giovane atleta che si gira verso di me per ricevere approvazione con gli occhi. Ma vorrei che non lo facesse.
Penso, invece, di essere in paradiso quando la stessa giovane atleta mi guarda e, anche se non me lo dice, pensa “ho capito perché. Grazie”. Quello vorrei che facesse!
Penso che lo sport sia come un medico che ha mille braccia come un’immensa piovra. Sempre disponibile ad abbracciare tutti. Ma niente farmaci, solo pillole di tolleranza e voglia di superarsi. Sempre.
Penso che sparare cazzate stia diventando il mio forte. Ma ne ho bisogno come una droga. Ogni giorno di più.
Penso che, per oggi, sia arrivato il momento di rimettermi la camicia di forza. Torno a fare la brava “pecora” (è una bugia ma non ditelo a nessuno).

lunedì 11 ottobre 2010

Minch-outing

Dedicato a quelli che sanno ridere dei propri difetti

Oggi si parla così, per inglesismi. Il “brunch”, il “brain storming”, il “break”… Siamo una banda di deficienti che non sa neanche quello che dice ma, in inglese, fa figo. Una delle parole anglosassoni più utilizzate in questa era di globalizzazione che ama spiare dal buco della serratura è fare “outing”. E siccome faccio parte anch’io del mondo global-pirla, stavolta è il mio turno. Faccio “outing”!
Lo so, lo so… Alcuni maliziosi si stanno già preoccupando o sbellicando dal ridere perché pensano “Oddio, l’orso grigio è gay!!! Come Tiziano Ferro!!!”. Vi deluderò: non lo sono ancora. Oggi farò “minch-outing” (per quelli che parlano solo il dialetto, si pronuncia minchiauting). Letteralmente, far uscire minchiate.

Ebbene sì. Quando faccio l’allenatore sparo un sacco di minchiate, quasi sempre con aria seria e talvolta truce. Una specie di incrocio tra Jean-Claude Van Damme e Lino Banfi. Insomma un pazzo con un linguaggio, a volte, da scaricatore di porto. Da quest’anno sono però fortunato rispetto al passato. I genitori delle mie “bimbe” mi guardano da un vetro e non sentono quello che dico. E allora faccio “outing”, anzi “minch-outing”. Mi libero da un peso… Ahhhh… Non ho ancora cominciato e già mi sento meglio…

Per far comprendere anche ai non laureati ciò che intendo, qui di seguito troverete un compendio (per gli inglesi, un Greatest Hits) delle frasi o dei termini attraverso i quali esprimo i miei sentimenti più candidi e celestiali mentre svolgo le mie funzioni di allenatore. Ogni frase è seguita dalla sua traduzione letterale, o meglio, da quello che in realtà intendo dire davvero. Non ci sono proprio tutte, magari più avanti farò una seconda puntata. Buona lettura e, come diceva Maurizio Costanzo, buona camicia a tutti (di forza).

Ad personam - individualmente.
Ad minchiam - a casaccio.
Stai facendo il gioco della “mattonella” - per prendere la palla devi muovere i piedi, figlia mia.
Te devi da piegà - piega un po’ le gambine, patatina.
Muovi quel culo - non giocare da ferma, tesoro.
C’hai er culo pesante - ora è certo. Stai giocando da ferma, bellezza.
Lascia pensare i cavalli che c’hanno la testa grossa (rubata ad Eugenio) - stai dicendo una stupidata, amore.
Ma che c’hai al posto della testa? Una cassetta dell’elemosina? (rubata a Lino Banfi) - forse è il caso di concentrarsi un po’, fiorellino.
Salti due “gazzette” stese, manco piegate - sii un po’ più esplosiva nel salto, dolcezza.
Mò te strizzo come ‘na spugna bagnata - sono leggermente irritato con te, bella mia.
Mò te tiro un carcio in culo che te sollevo da tera - sono sempre più irritato, micetta.
Per migliorare devi cacare sangue - impegnati che ne vale la pena, angioletto.
Ma capisci l’italiano o solo il dialetto? - mi stai ascoltando, meraviglia?
Ma che te sei magnata? Il tasto del rallentatore? - dovresti essere un po’ più dinamica, mia musa ispiratrice.
Tu prima di venire in palestra bevi grappa - non ho capito bene bene bene l’ultima cosa che hai fatto, vita mia.
Ma le stronzate le sogni di notte e le fai di giorno? - scelta sbagliata, cocca.
Ma che, niente niente, sei muta? - chiama la palla, luce dei miei occhi.

Ma quando ti vede in foto, tua madre ti riconosce? - ti vedo un po’ confusa e credo che mamma sarebbe d’accordo con me, coniglietta.

Adoro le conigliette, sono come loro. Basta vedere i miei denti. In fondo mi sento un po’ come Jessica Rabbit quando diceva “io non sono cattiva, è che mi disegnano così”… (tradotto dall’inglese).

lunedì 27 settembre 2010

L'idea fissa

Dedicato ai matti (o presunti tali)

Pensiamoci bene. Chi è un matto? O meglio, chi definiamo come tale? Non in senso patologico, ovviamente. Tranquilli, non siete sul blog di Dr. House. Per il momento non mi serve neanche il bastone… Stavolta la prendo alla lontana per provare a spiegare (o a spiegarmi) un pregiudizio, un limite della nostra mente, macchina complessa e troppo spesso superficiale.

Quando, in senso buono, diamo del “matto” a qualcuno, siamo soliti associargli (o associarle) delle idee fisse. Anzi, molto spesso, un’idea fissa. Non parlo di manie, tipo sistemarsi continuamente i calzini, passarsi le mani tra i capelli, spolverare tutti i giorni i mobili di casa… Quelli sono comportamenti meccanici che per lo più vengono ereditati da esperienze vissute. Parlo di caratteristiche del carattere, parlo di sfera umana.

Così l’appassionato di modellismo diventa un po’ matto perché, invece di uscire nel weekend, si rinchiude in casa a costruire barche in miniatura. Chi per professione suona l’oboe diventa un po’ matto perché… Perché… Che minchia è l’oboe? Ecco perché. Chi lavora dalle 4 del mattino alle 12, quando potrebbe fare il canonico 8-17, diventa un po’ matto perché ci si chiede chi glielo faccia fare. Queste persone diventano un po’ matte perché sono semplicemente diverse da noi, dai nostri standard. Ma, soprattutto, diventano un po’ matte perché parlano spesso della loro idea fissa, e ne parlano come se fosse quello lo standard. Semplici punti di vista? Può darsi.

La gente mi ha sempre considerato un po’ matto. E da buon matto, io l’idea fissa me la immagino come una di quelle candeline “magiche”, quelle delle torte con il trucco. Quelle che fanno incazzare i bambini. Capito, no? Soffi, le spegni e si riaccendono. Ci riprovi, soffi, le spegni e quelle si riaccendono un’altra volta. Nella vita capita che sia proprio tu a cercare di “spegnere” l’idea fissa. Perdi la donna che ami e vuoi “spegnere” il cuore, fatichi con il lavoro che fai da 20 anni e vuoi “spegnere” la tua professione, rompi il tuo peluche preferito e vuoi “spegnere” (o bruciare) tutti i pupazzi dell’universo. Ma la candela, puntualmente, si riaccende.

L’idea fissa è “io sono fatto così e se non vi sta bene… Pazienza! Io sono in pace con me stesso”. L’idea fissa è avere davanti un prato meraviglioso, pieno di fiori bellissimi, alcuni dei quali però nascondono delle mine pronte ad esploderti in faccia. Ma tu te ne freghi e li raccogli lo stesso perché solo pochi esplodono. Molti profumano di paradiso.

Qual è la mia idea fissa? Facile. Costruire una squadra vincente dove ciascun componente sarebbe pronto a dare il sangue per l’altro. Dove la parola “io” non esiste, esiste solo il “noi”. Dove ci sono giorni in cui chi se ne frega se non ho giocato, la mia squadra ha vinto! Cazzo! Dove alla fine delle partite non bisogna chiedersi “andiamo a mangiare la pizza?” perché è scontato trovarsi al solito posto tutti insieme. Dove un atleta si spacca in quattro anche se non riesce, e gli altri fanno il tifo per lui (o per lei, che mi si addice di più).

A volte, ho provato a spegnere la mia “candelina” ma quella si è sempre riaccesa. Da alcuni anni ho smesso di allenare le “prime squadre”, le adulte, l’élite. E sono tornato ad occuparmi solo di giovani. Il motivo è molto semplice: non passa giorno che io non debba ringraziarle. Mi basta un loro sorriso, mi basta un loro “a che ora domani?” e… la candelina non provo mai a spegnerla. Perché i giovani sono la speranza. I giovani sono il sogno. E adorano i “matti”…

lunedì 20 settembre 2010

Si va in scena!

Dedicato a chi non sa cosa vuol dire

PIT, PIT… PIT, PIT… PIT, PIT… E’ sempre lei, la maledetta! Quella che ti fa dire, più o meno tutti i giorni, “ancora cinque minuti”. La scatola malefica con le lancette fluorescenti che ti osserva dal comodino quasi con un ghigno mentre tu controbatti con aria di sfida, soprattutto il lunedì mattina. Ma stavolta non la fai tacere con una sberla in testa. La tua sveglia ti guarda austera come sempre ma tu sorridi e la spegni con un buffetto. Le vuoi quasi bene. Oggi è sabato, oggi c’è la “prima” di campionato.

Vescica gonfia e petto in fuori. Pronto per il solito lavaggio quotidiano: faccia, denti, piano di sotto. Ma non è il solito pit-stop mattutino. Stavolta è lento come lo farebbe il primo uomo sulla luna. Un’ultima occhiata allo specchio, ti piaci un sacco, manco fossi George Clooney… Barba lunga. Tiri fuori il rasolio.
Ma sei scemo?! Il giorno della partita la barba non si fa! Porta sfiga!!! Più invecchi, più ti rincoglionisci… Simpatica senilità precoce.

La mattinata se ne va insieme a frasi insignificanti dette alla cassiera del super, al panettiere e al fruttivendolo. Ogni minuto che passa usi sempre meno vocaboli fino al silenzio. Muto. Ti rimane stampato in faccia solo un sorriso da ebete fino all’ora di pranzo. Davanti a te un piatto di pasta. Ma nel tuo stomaco qualcuno comincia a fare a pugni. Pensi al fritto misto della sera prima ma sai benissimo che non è lui. Chiedi scusa alla pasta ma la lasci lì. E’ cominciata la “trance”. Non parli più. La testa è già lì da un pezzo. “Papà! Posso attaccare la Play in sala?” ti chiede tuo figlio. Il furbetto sa sempre qual è il momento giusto per le rivendicazioni sindacali. “Si” è la frase più lunga che riesci a dire. Prendi la borsa e ne sfili lentamente la cartelletta. Ok… Schemi a posto, i fogli formazione ci sono, documenti in ordine. Borsa in spalla, pronti… via!

Il tragitto casa-palestra in auto è una dolce passeggiata, ti sembra di guidare su un sedile di ovatta. Fai scorrere le canzoni dell’mp3 fino a raggiungere quelle giuste. Immagini le tue bimbe che si preparano la borsa (o se la fanno preparare) e ti chiedi se anche loro ci stanno già pensando. Se anche loro, come te, sono già lì con la mente. Ti distrai e sbagli strada, dovevi girare a destra ma vai dritto. Ma non t’importa, fai il giro lungo. Tanto sei in anticipo, come sempre. Un minuto in più col culo sull’ovatta. Arrivi a destinazione, spegni la macchina. Gli ultimi trenta secondi della canzone preferita e entri in palestra. Il tuo tempio.

Giù la borsa. Allestimento campo. Panchine, pali, rete, astine, palloni. Sistemi tutto alla perfezione e poi osservi il tuo piccolo lavoro con la stessa faccia da ebete che avevi a pranzo, come se stessi ammirando la Monna Lisa. Ti accomodi sulla tua panchina e prepari gli attrezzi del mestiere. Lavagnetta, pennarello, biro per gli appunti. Senti le prime voci. Arrivano le bimbe. “Ciao, Tony! Ciao, Tony! Ciao, Tony!”. Sono una squadra anche in quello. Salutano tutte allo stesso modo, tranne la solita che arriva dieci minuti dopo, rossa in volto e trafelata. “Scusa, sono uscita tardi da scuola. Ah… Dimenticavo! Ciao, Tony!”.

Il riscaldamento delle squadre sta per finire. Hai già fumato due sigarette da quando sei arrivato. Per qualche attimo ti fanno compagnia la mamma di Tizia, la sorellina di Caia e il papà di Sempronia. Ti dicono un sacco di cose e tu cerchi di ascoltare. Ma è già qualche ora che non ascolti più nessuno.

Le ultime raccomandazioni alle bimbe. Mancano cinque minuti. La sigaretta del condannato, rigorosamente da solo e rigorosamente buttata a metà. Rientri. Il saluto sotto rete e il “buona partita” al collega avversario.
Adesso tutti in cerchio.
OOOHHHH… SOOO!!!
Forza, bimbe! Si va in scena!

lunedì 13 settembre 2010

Corto circuito

Dedicato a chi ha dei dubbi

Questa volta il “la“ me l’ha dato un libro che ho riletto di recente: Il Dubbio di Luciano De Crescenzo. Ho voluto sintetizzarlo in una frase che è comparsa ne Il Sassolino, l’aforisma della settimana, qualche tempo fa.
"Solo gli imbecilli non hanno dubbi!"
"Ne sei proprio sicuro?"
"Non ho alcun dubbio!". 


Ho sempre diffidato di chi ha fedi assolute, di chi parla sempre per frasi fatte. Una delle più clamorose è “se potessi tornare indietro, rifarei tutto quello che ho fatto”. Che ipocrisia da quattro soldi! Io, invece, se potessi sedermi sulla macchina del tempo, farei qualche sosta e cambierei volentieri qualche scena del mio film.

L’argomento è di quelli non ampi, di più. Eterni. Quindi prendo il pezzettino che mi interessa ora e ci metto sopra un po’ di sana provocazione. Il rapporto genitore-giovane atleta. Ed è un paradosso dei tempi moderni, un corto circuito. Mi spiego meglio.
Quando quelli della mia generazione, me compreso, si ritrovano in branco (che so… in pizzeria, all’uscita da scuola per recuperare i figli, nelle pause panino-birretta-via di corsa a lavorare…), sono soliti incensare i propri tempi passati. “Noi sì che eravamo indipendenti, non avevamo bisogno del cellulare, a scuola andavamo sempre col bus mica col suv di Papino, il ritrovo della compagnia non aveva bisogno di cento sms perché era sempre al solito posto-solita ora, giocavamo in cortile non alla Play, noi sì che comunicavamo veramente mica come oggi che si chatta e basta…”.

E via di questo passo. Fin qui si potrebbe anche non trovare nulla da obiettare. Ma quando rimettiamo il paletot del genitore, la faccenda cambia. La cosa più assurda è che spesso sbugiardiamo quelli che, quando abbiamo un flut di vinello fresco in mano, spacciamo ai nostri simili per essere i capisaldi della sana educazione. Fiducia, giusta indipendenza (non regalata s’intende), comunicazione e comprensione verso i nostri figli. Ah… Dimenticavo! Tolleranza verso la diversità, la migliore.

Qualcuno, però, dovrebbe spiegarmi perché spesso ce ne usciamo con minchiate (perdonate l’inglesismo) come “mio figlio non può fare sport a livello agonistico perché ha troppo da studiare”. Sentita qualche giorno fa. Oppure “alla mia bambina allaccio io le stringhe delle scarpe perché non è ancora tanto brava”. Scena vista qualche mese fa. E ancora “Oggi Giovannina non viene in palestra perché, anche se abitiamo a 500 mt. di distanza, non la posso accompagnare in macchina. E non mi fido. Sai per strada… Tanti extra-comunitari…”. Vera anche questa. Anzi, detta col massimo candore.

La cosa che mi fa più ridere, ma più spesso incazzare, è che incolpiamo un “fantomatico” sistema di tutte queste abberranti affermazioni. E’ la società di oggi, si dice. Scegliamo noi per i nostri figli, per il loro bene. Perché loro non sono ancora in grado. E magari molti di quelli in questione sono prossimi alla maggiore età. Ma non eravamo mica quelli del “bus-no suv”, del “noi indipendenti”, del “bianco e nero siamo tutti uguali”?

Io non ho certezze. Penso che la società, forse, siamo noi. Penso che dovremmo, forse, chiedere più spesso ai nostri figli il loro punto di vista. Penso che se nostro figlio sia convinto di potersi allenare tutti i giorni e riuscire anche a studiare, forse, sia meglio metterlo alla prova. Forse = dubbio. Dubbio = crescita. Crescita = indipendenza. Forse.

lunedì 6 settembre 2010

Sipario

Dedicato a chi ha creduto in me

Nello sport, come nella vita, ti capita di arrivare ad un bivio. Due cartelli davanti ma, in quel momento, una sola strada è quella giusta. Nello sport, come nella vita, ti capita di prendere decisioni che non vorresti prendere. Due cartelli davanti, vorresti sterzare da una parte ma il volante va dall’altra. L’eterno conflitto tra cuore e ragione. E’ come stare in un flipper, e il flipper sei tu. Metti la moneta, tiri la pallina ma ne escono due. E, per di più, sono due palline impazzite e tu non capisci. A quel gioco, di solito, ce n’è una sola. Cominci a schiacciare tutti i tasti dell’universo, per un po’ le tieni a bada ma quelle maledette palline sembrano non voler fare quello che vuoi tu. E, quando meno te lo aspetti, il flipper te le sbatte in piena faccia. Che botta! Poi capisci e ti fermi. E’ il momento del puzzle, ad ogni tesserina il proprio posto. Il cuore rallenta e la testa cammina…

Sono tornato sul luogo del delitto. Le mie chiavi sono ancora in borsa e tra poco saranno le chiavi di qualcun altro. Apro delicatamente come si fa entrando in un luogo sacro. Silenzio. Scendo le scale. Il mio posto ideale è lì che mi aspetta ma stavolta c’è un comodo cuscino a prendersi cura delle mie chiappe. Mi siedo sulla panchina più bella che abbia mai potuto desiderare, la capanna, la coperta di Linus dei maestri di “zompi” come me. Ancora silenzio. Per la prima volta anche le zanzare sembrano addolcirsi e mi danno tregua. Quanto sangue mi hanno succhiato quelle maledette…

E’ fine agosto. Ho portato con me un album vuoto. Le foto di sei anni della mia vita mi hanno dato appuntamento. Volteggiano nell’aria incuranti del caldo e aspettano il segnale. Mi siedo, apro l’album e una alla volta si avvicinano. Si fermano davanti ai miei occhi come per darmi il tempo di guardarle per bene. Il primo giorno, la prima atleta, la prima partita, fischi, urla, palloni che rimbalzano. Io non faccio nulla, osservo e godo. Una alla volta vanno ad appiccicarsi nella pagina giusta, al posto giusto.

Ci sono proprio tutti. Dirigenti, colleghi, genitori. Il saluto all’Orso Grigio che parte per nuove sfide. Qualcuno è riuscito addirittura a saltare il fosso. Il miracolo: riuscire a diventare tifoso di una squadra e non solo della propria figlia. Ma soprattutto ci sono loro. In sei anni ne ho viste passare alcune centinaia, e ne ho allenate diverse decine. Le mie bimbe.

La foto di ognuna di loro entra nell’album, mi sorridono. La sfilata più bella del mondo, altro che le modelle in passerella… Mi ringraziano di tutto e mi perdonano tutto. Come sempre. E come sempre arriva anche Santa Lacrimuccia che non mi abbandona mai. Anche lei vuole salutare. Anche lei sfila per farsi bella.

L’album ora è completo, si richiude da solo e rimane lì sulle mie gambe. Lo accarezzo con cura, un’ultima occhiata. E’ ora di partire. Mi alzo e risalgo le scale.

Clack! Clack! Clack!
I soliti tre interruttori.
Si spengono le luci. Sipario.

lunedì 30 agosto 2010

Il sogno e l'angelo biondo

Dedicato ad un’amica alzatrice

Settembre 2002. In quel periodo, oltre alla pallavolo, era una piccola casa editrice a darmi da mangiare. Tony Giannotti, Coordinatore Editoriale della Rivista “Hi-Tech Volleyball”, o almeno su quelle pagine c’era scritto così. Un incarico a metà strada tra “giornalaio” e “giornalista”. Ma per me, era un gran bel modo per occuparmi sempre di pallavolo, seppur in un altro contesto. E adoravo quel lavoro.
In quel mese di settembre, esattamente il 15, l’Italia al femminile divenne per la prima volta Campione del Mondo, battendo in una finale alla morte gli Stati Uniti per 3-2. Bisognava celebrare l’evento. E il mio Editore mi concesse, come spesso faceva, il privilegio di poter scrivere l’Editoriale. “Fai tu” mi disse. Cominciai a scrivere.

Mentre cercavo le parole giuste, però, il mio pensiero correva ad un’amica, pallavolista anche lei. Alzatrice, per la precisione. Un paio di mesi prima, il più bastardo dei destini aveva deciso di interrompere la sua vita (e quella del suo fidanzato) in un tragico incidente. Aveva poco meno di trent'anni.
E allora, con gioia e tristezza nella testa e nel cuore, mi venne fuori un articolo “diverso”. Era come se volessi prolungarle la vita per qualche attimo. Un’ultima e piccola chiacchierata tra me e lei. Un ultimo piccolo regalo ad un angelo biondo. Ne venne fuori questo.

“Obiettivo: migliorare il 5° posto del mondiale ’98. Risultato: Campioni del Mondo 2002! Un sogno, una favola, un’impresa. Nomi, aggettivi, ricordi che non bastano mai a comprendere del tutto ciò che è successo in quel di Berlino lo scorso 15 settembre, ma che ha origini assai lontane. Che altro: parole come buio, a rappresentare la preoccupante sconfitta con Cuba, e luce, come il luccichio di dodici medaglie d’oro tutte in fila, ma anche vocaboli che possono identificare schemi di muro pronti a fermare bordate altrui (per dettagli chiedere a Bonitta docet). Non ce ne vogliano i poeti della penna ma noi, per festeggiare il lieto evento, butteremo lì anche qualche considerazione per gli operatori della “manata”.

Come dici? Ho imparato a scrivere in italiano? Sei sempre la solita. Ma hai visto che roba ‘ste fanciulle? Lo so, lo so che le hai viste anche tu. La tua preferita? Facile: “Leo” Lo Bianco, alzatrice come te… La mia? Paolina Cardullo, l’emblema dell’atleta normale.

Un gioco alla maschile quello dell’Italvolley in rosa: un opposto vero che fa del male in 1^ e 2^ linea (Togut), un’alzatrice “spugna” (Lo Bianco, come la ama definire Bonitta), due bande-ricettori giovani ma allo stesso tempo già esperte (Piccinini e Rinieri), due centri con muro e 1° tempo versione certezza (Leggeri e Mello) e un piccolo grande libero che cambia i centri nel giro dietro (Cardullo, vent’anni appena). Cambiando l’ordine dei fattori (Mifkova di banda, Sangiuliano ad alzare il muro e Paggi, Anzanello e Borrelli a completare il quadro) il risultato non cambia. Ma più di tutto una mentalità da corazzata “pensante” (non ce ne voglia il vecchio Karpol), in grado, durante l’intero arco del mondiale, di modificare le sue priorità e scelte di gioco. Che poi in finale il braccio armato della Togut abbia affondato muro e difesa degli USA, non vuol dire che i meriti dell’oro stiano tutti lì. A nostro parere una cosa è certa: questa vittoria dice che la pallavolo femminile di vertice ha portato definitivamente tattica e psicologia di gruppo in cima alle sue priorità.

Parlo sempre di pallavolo? E che devo fare, adesso mi pagano anche per farlo! Non come anni fa: insieme in palestra, io e te, per il puro divertimento di esserci. Certo che me lo ricordo il tuo numero di maglia: 10, dico bene?

E infine il Coach: Marco Bonitta da Ravenna. Mascella forte e idee chiare. Un tecnico già vincente che ha traghettato questa Nazionale verso la consacrazione internazionale. Ci ha messo sicuramente del suo, il buon Marco, difendendo con forza le sue scelte. Difficile, ora, non dargli ragione. E se è vero che nello sport d’élite contano solo i risultati…

Li saluto io per te? Certo che posso! Sono convinto che, da lassù, tu abbia festeggiato almeno quanto noi, angelo mio. Ed è per questo che mi sono preso la licenza di regalare il tuo splendido sorriso anche a loro…
Ciao, Berenice”.

martedì 24 agosto 2010

Quando uno s'incazza...

Dedicato a chi non si non perde mai d’animo

Ho conosciuto Mauro Berruto una decina d’anni fa. Avevamo (e abbiamo ancora) in comune tre cose: il mestiere di allenatore (lui però allena in serie A), la passione per la penna (lui però ha scritto due libri) e il “mito” dell’Olimpiade (lui però ci è andato). Insomma… 3-0 per lui. Io però sono più bello. 3-1 il finale.

Se vuoi raggiungere un obiettivo, devi essere fortemente determinato. Chi fa l’allenatore, questa frase l’avrà ripetuta ai suoi atleti migliaia di volte. E prima ancora, se ha fatto sport, se l’è sentita ripetere migliaia di volte da chi lo ha allenato. Ma che cos'è davvero la determinazione nello sport? Forse si dovrebbe partire prima dal concetto di “motivazione”, vale a dire dalla molla che ti spinge a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Quindi ciascuno si merita la sua. E via così...
Nel tentare di riordinare i miei soliti deliri sull’essenza di quello che mi dà da vivere, mi sono imbattuto di nuovo in uno dei due libri di Mauro. L’avevo letto alcuni anni fa e mi è ritornato fra le mani come se lo stessi cercando. A volte la polvere che attacca le librerie è tua alleata.
Quella che sto per farvi leggere, è una storia vera. Di un atleta vero, accaduta tanti anni fa. E’ la storia di un uomo che il destino bastardo voleva fregare, ma non ci è riuscito. Questa è la storia di Harrison Dillard.

“Harrison Dillard era il più grande specialista al mondo dei 110 ostacoli, oltre 100 vittorie consecutive. Ma la spietata follia dei Trials lo aveva fatto inciampare su una barriera e lo aveva escluso dalla partecipazione ai Giochi Olimpici di Londra. Non perse neanche un secondo del suo tempo a disperarsi, a imprecare contro la sfortuna e le ottuse regole, a pensare a quello che poteva essere e che invece non sarebbe stato. Si iscrisse, negli stessi Trials, a una gara a lui quasi sconosciuta: i 100 metri. Arrivò secondo e si conquistò il diritto di andare ai Giochi dove vinse, in quella specialità, l’oro olimpico. Quattro anni dopo, a Helsinki, ristabilì un’assoluta giustizia sportiva, vincendo il suo oro nei 110 ostacoli. Vai a capire, certe volte, la differenza che passa tra pensiero positivo e incazzatura”.

tratto da:
Mauro Berruto - Andiamo a Vera Cruz con quattro acca - Bradipolibri