lunedì 29 novembre 2010

Sogni olimpici

Dedicato a Giorgia

A volte scatta qualcosa nella nostra testa. La chiamiamo “associazione di idee”. Qualche giorno fa, un’atleta che allenavo non molto tempo addietro ha pubblicato su FB una frase che mi ha attribuito. Uno dei miei soliti deliri che devo aver sputato fuori dalla bocca in uno dei tanti giorni in cui cercavo di dare un senso a quello che facevo: “L’unica battaglia che non puoi vincere è quella che non vuoi combattere”. Non c’è niente da fare. Dopo venticinque anni, qualcosa o qualcuno mi riporta sempre sulle solite idee fisse. Quelle dei matti, ricordate? E chissà perché ho pensato di nuovo allo spirito olimpico, quello dei 5 cerchi. Il sogno per eccellenza, almeno che per chi fa sport. Così mi sono ritrovato tra le mani un articolo che avevo scritto esattamente dieci anni fa. Una celebrazione tutta mia di chi ha fatto del suo sogno una realtà meravigliosa. Pazzesco come, senza volerlo, ho ritrovato frasi scritte di recente. Esattamente identiche a quelle di due lustri fa. Correva l’anno 2000 e si erano appena concluse le Olimpiadi di Sydney. L’orso grigio scriveva…

“Partecipare ai Giochi con la consapevolezza di essere parte dell’evento sportivo per eccellenza, di rappresentare la più grande festa di popoli e razze del pianeta e, per questo, vivere la sfida non contro un’altra bandiera bensì contro sé stessi. Due mesi or sono, questi pensieri circolavano nella nostra mente. Si chiude il sipario: il cuore rallenta e la testa cammina...
Queste due settimane insonni ci hanno convinto che la speranza è una cosa buona, che la tenacia è linfa vitale, che lo sport sa essere magico. Gli occhi… gli occhi di molti atleti hanno raccontato al mondo intero, senza bisogno di inutili parole, che la gloria più grande non sta nel battere un avversario ma nel vincere i nostri limiti, le nostre insicurezze, i nostri pregiudizi. Ci sarebbero tanti nomi da citare: ne scegliamo solo due, in rappresentanza di un popolo di uomini e donne che vorremmo fossero nostri amici, anche solo per un giorno.

Steve Redgrave, classe 1962, pochi capelli e cuore da eroe. Dislessico e diabetico, cinque iniezioni al giorno di insulina. Gli ignoranti del canottaggio (noi compresi), vedendolo giungere a Sydney, avranno probabilmente pensato “non può essere un atleta, sarà un dirigente”. Ad Atlanta ‘96, dopo la sua quarta medaglia d’oro in altrettante edizioni olimpiche, disse “… se risalgo su una barca, sparatemi!”. Di anni ne aveva trentaquattro. Non gli basta, il richiamo dei cinque cerchi è troppo forte. La terra “down-under” si inchina al suo quinto oro olimpico, insieme a tre giovani atleti di cui potrebbe essere il padre. I nostri occhi sono umidi, i suoi guardano i figli in tribuna.

Antonella Bellutti, classe 1968, occhi buoni e gambe d’acciaio. Nel ‘94 abbandona l’atletica leggera, suo primo grande amore (è un’ottima ostacolista), e sale per la prima volta su di una bicicletta, attrezzo con cui probabilmente, fino al giorno prima, si recava alla pista di atletica o a comprare il giornale. Due anni dopo vince il suo primo oro olimpico ad Atlanta, e lo dedica a coloro che sognano uno sport pulito. A Sydney scende mestamente dal podio nella sua gara “forte”: l’inseguimento individuale su pista, l’oro di Atlanta. Sembra distrutta, ma non è così. Risale in bicicletta qualche giorno dopo nella gara a punti. È un trionfo! I suoi occhi non smettono di piangere, i nostri anche.

Che dite, è solo retorica tutto questo? Beh, allora diciamo che l’Italia sarà anche un popolo di sognatori ma, alle volte, i sogni diventano realtà. Dedicato a tutti gli sportivi che, almeno una volta, hanno sognato. Grazie di cuore”.

lunedì 22 novembre 2010

Non può piovere per sempre

Dedicato a chi si ostina a credere

Nessuno sembrava darle retta e lei si arrabbiò. A modo suo. Ne fece scendere ancora, e poi ancora, e poi ancora… La città era allagata, la gente stanca e cupa ma, nonostante tutto, uomini e donne si limitavano a camminare sotto l’ombrello. O a continuare a lavorare, ad andare a scuola, a lamentarsi di quanto fossero esausti. O, più semplicemente, a spiare attraverso le tende mentre l’acqua continuava a scendere e maledicendo il mondo intero. Ma nessuno si chiedeva il perché. Nessuno poteva o voleva capire. “E allora continuerò fino a quando qualcuno non capirà” disse tra sé e sé. “E’ mai possibile che nessuno in questa città si accorga di quanto poco possa bastare per far tornare mio fratello?” La pioggia aveva deciso che il mondo, attraverso di lei, si sarebbe accorto dei suoi errori. Sorella pioggia, stavolta, si era incazzata davvero.

Se ne stava nascosto dietro alle montagne. Ed era la vergogna a tenerlo nascosto. Lui si era fidato degli esseri umani ma loro sembravano come paralizzati, vuoti, assenti. Continuava a rimuginare le stesse parole: “Ve lo avevo detto… Il mio calore in realtà è il vostro. Dipende da voi”. Sua sorella era stata saggia e lui lo sapeva. Fratello Sole aveva scaldato la città per lunghi anni ma, quando Sorella Pioggia si era arrabbiata in quel modo, non c’era stato nulla da fare. Per spazzare via le nuvole, le grandi alleate di Sorella Pioggia, Fratello Sole aveva bisogno della gente. Solo uomini e donne potevano farlo tornare e c’era solo un modo perché accadesse. Era il loro cuore a doverlo chiedere. Il cuore della gente.

Aurora se ne stava nella sua camera da letto. Non poteva uscire, continuava a piovere e quindi ingannava il tempo. Ma sistemare i giocattoli, pettinare le sue splendide bambole e avere cura del suo piccolo orso Smily non bastava più. “Perché la pioggia è così tanto arrabbiata con noi?!” continuava a ripetersi. E fu proprio in quel momento che sentì una voce. Era Smily. Il suo piccolo orso si animò. Non poteva credere ai suoi occhi. Se lo mise sulle ginocchia e, con occhi sgranati dallo stupore, stette ad ascoltarlo. “Tu hai un nome speciale. Tu puoi farlo tornare. E’ solo nascosto e tu sai dove. Se lo trovi, lui tornerà. Non può piovere per sempre”. E fu così che Aurora, sparì.

La città era sempre più triste, ed i genitori di Aurora disperati. La loro piccola era svanita nel nulla. Nessuno l’aveva vista, nessuno sapeva dove fosse. Solo un biglietto sul comodino, nient’altro. “Non può piovere per sempre”. Tutta la città si era mobilitata per trovarla. Cartelli dappertutto, telegiornali, radio… Niente. Sparita. Ma all’improvviso accadde qualcosa di inaspettato. La pioggia cessò di colpo, come una mano divina che chiude il rubinetto dell’acqua. In principio fu una luce fioca, poi un urlo. “Guardate!!! Là… Verso la strada che conduce alle montagne!!!”.

Fratello Sole stava lentamente tirando su la testa, come un cucciolo che si stiracchia dopo un lungo sonno. All’orizzonte, una sagoma di bimba che sorrideva come nessuno era stato in grado di fare in quei lunghi giorni di pioggia. E quando fu più vicina, tutti si accorsero che Aurora stava tornando a casa con un piccolo orsacchiotto in mano.

martedì 9 novembre 2010

La chiave d'ingresso

Dedicato ai nuovi giovani e ai vecchi tromboni

Quest’anno io e la mia malattia festeggiamo le nozze d’argento. Alleno da venticinque anni. Babba bia! Tanta roba… Ma non mi sento per niente appagato, stanco o passato. La candela è sempre accesa. Anzi, mi sento più utile ora che a vent’anni. E sono sempre più curioso. Ho sempre una gran voglia di capire, di confrontarmi, di lanciare nuove sfide a me stesso e al mondo. Il merito è tutto delle mie “bimbe”, nuove leve da far crescere, nuove giocatrici che cerco di aiutare a diventare “Atlete” (con la A maiuscola). E’ un viaggio complicato, pieno di difficoltà, di randellate dietro la schiena. Ma con tantissimi momenti di soddisfazione impagabili.

E dopo venticinque anni c’è ancora una cosa che mi fa incazzare come una bestia. Una frase in particolare. Una delle tante frasi fatte che noi allenatori elaboriamo con il nostro cervellino “so tutto io”, le facciamo prendere l’ascensore con direzione piano di sotto ed eccola uscire dalla nostra bocca. DIN! Le porte si spalancano. La stronzata delle stronzate: “Le nuove generazioni di giovani non hanno voglia di far niente, niente fatica. Non come una volta… Una volta era diverso…”. E ridaje con la solita tiritera che il passato era meglio. La cosa ancora più assurda è che questa frase, spesso, viene pronunciata da colleghi che allenano da pochissimi anni. Ma che ne sanno? Basta che un vecchio coach “trombone” pronunci la minchiata e giù tutti a fare “sì” con la testolina, come tante brave pecorelle.

La verità è un’altra. I giovani delle generazioni passate non erano meglio. Erano semplicemente diversi da quelli di oggi. Capito, vecchi rincoglioniti? Diversi, non migliori. Sembra quasi che vent’anni fa bastasse entrare in palestra per un solo giorno ed, improvvisamente, i giovani vedessero la luce. E come per incanto, la pallavolo diventava la loro passione, la loro ragione di vita. Erano improvvisamente disposti ad allenarsi tutti i giorni senza fiatare, a spezzarsi la schiena con il sorriso sulle labbra, a mettersi sull’attenti come tanti soldatini. Senza che noi allenatori, dirigenti o addetti ai lavori facessimo nulla. Tutti unti dal Signore. Amen! Andate in pace. Anzi, andate un po’ a cagare, già che ci siete…

Io di pallavolo credo di capirne ancora poco. Non credo di essere poi così bravo, anche dopo venticinque anni. Ho tanto ancora da imparare. Certo che i tempi sono cambiati, non sono mica imbecille. Ma una cosa l’ho capita. Nel mio lavoro, la sfida sta nel trovare la chiave d’ingresso. Quella che serve per entrare nella testa dei nuovi giovani, oggi come allora. Li vogliamo più indipendenti e meno mammoni? Proponiamo loro un modello diverso e lavoriamoci sopra. Anche loro hanno bisogno di capire. E se capiscono, ti danno anche l’anima! Difficile? Faticoso? Certo che lo è! Ma se non siamo disposti a farlo, cosa ci andiamo a fare in palestra? Ci lamentiamo che i nostri figli vogliono la pappa pronta ma siamo noi a dar loro questo modello. I giovani sono come delle spugne, assorbono il mondo che li circonda. E lo fanno loro. Vogliamo combattere i modelli negativi? E allora diamo ai giovani delle chances, proponiamo percorsi alternativi e su le maniche.

Vincere? Certo che mi piace! Vincere è uno degli obiettivi ma non può essere il solo modello. Ci sono momenti che mi danno ancora più gusto. E vi faccio alcuni esempi. Chi non mi conosce bene, a volte, mi scambia per un pazzo vedendomi lavorare in palestra. Chi poi impara a conoscermi pensa che io lo sia davvero. Eppure tra le mie nuove bimbe sono sempre più numerosi gli episodi in cui sono loro a chiedermi di potersi allenare di più. Mi mandano sms chiedendomi il permesso di allenarsi con un’altra squadra. A volte, sono io a proporre loro di andare a fare panchina nel gruppo superiore. E non dicono mai di no. Anzi, accettano con piacere. E allora mi chiedo: ma siamo così sicuri che i giovani di oggi non abbiano voglia di fare un cazzo?

lunedì 1 novembre 2010

Testa e croce

Dedicato a chi ci si riconosce

Questo potrebbe essere un film. Forse un po’ strano ma pur sempre un film. Una specie di lungometraggio che assomiglia ad un videogame. I protagonisti sono gli uomini e le donne. Sono seduto di fronte ad uno schermo, solo. Una bellissima sala di proiezione con un’unica poltrona. Ho due monete molto particolari in mano, uomo e donna. Basta lanciarne una in aria, fermarla tra le mani e osservare. Testa o croce? Non devi neanche scegliere, non si vince nulla. E le immagini partono. Mi guardo intorno. Unico cliente, visione privata. Regista inconsapevole per un giorno. Prima le donne, moneta in mano. Trois, deux, un… fiit!

Testa (donna).
La bellezza, l’armonia e la delicatezza in un unico corpo. Un corpo capace di creare nuova vita. Come la più grande Dea dell’Olimpo. Il grande miracolo della natura. Una testa che deve sempre capire, interiorizzare. Un cervello che non si spegne mai. Mai stanca, mai doma. La donna è affidabile. Ha un cuore in grado di amare profondamente ma che vuole sempre un perché. Una forza nella mente che le permette di ripartire sempre e comunque, soprattutto nei momenti bui.
Anche in un mondo senza uomini, la donna troverebbe il modo di sopravvivere e forse anche di riprodursi.

Seconda moneta. Testa (uomo).
Un corpo spigoloso, grandi ossa e grandi muscoli. L’esatto opposto dell’armonia. L’immagine della sana forza fisica con un cuore da eterno fanciullo. L’uomo sogna, lavora, bacia anche senza un perché. Semplicemente perché gli va. Perché no?! Non sempre capisce perché non sempre gli va di capire. Non sa cos’è il rancore. L’amicizia con i suoi simili è il suo forte. E’ in grado di scalare una montagna a piedi nudi per un amico vero. In un’isola deserta troverebbe il modo per costruirsene uno (ricordate Tom Hanks e “Wilson” nel film Cast Away?). E’ tutto più grande nell’uomo, anche il cuore.

Di nuovo prima moneta. Croce (donna).
La donna non parla, interiorizza, rielabora. Si contorce. E quando parla spesso non lo fa con la persona interessata ma con l’amica di turno.
La sega mentale è il suo forte. Ha la capacità di descrivere un sassolino che rotola come la più grande delle frane del cosmo. Ama apparire. Parla con il suo corpo e il corpo le risponde. Ha un grande potere e lo sa benissimo.
Ma non sa dimenticare e te lo ricorda con i suoi tempi. Magari due mesi dopo il temporale. D’improvviso… BUM! E l’uomo non capisce.

Ultima faccia delle medaglie. Croce (uomo).
Rutta, bestemmia e scoreggia. A volte va in giro con patacche di sugo sulla maglia e se ne accorge il giorno dopo. Ma se la rimette lo stesso. E chissenefrega. Anche lui parla con il suo corpo, quasi sempre con l’organo situato al centro. Con gli altri organi fa spesso fatica.
Ha il “vaffa” sempre pronto, lo esterna spesso per poi dimenticarsene in fretta. E’ inaffidabile ma con candore. Come se fosse la normalità. Beccato come un bambino con le dita nella nutella. E la donna non capisce.

Ma lo sport in tutto questo cosa c’entra? Come cosa c’entra?! Amore, famiglia, lavoro, sport non fa differenza. Uomini e donne sono questa roba qua dal primo all’ultimo minuto del giorno. Certo, smussano angoli. Ma il grosso rimane. E la cosa più bella del mondo è che sembra quasi che non possano vivere senza i difetti altrui. Io, per esempio, adoro ruttare davanti alla TV ma lavoro con le donne da quasi 25 anni. E a volte mi chiedo: sono masochista o sognatore?