lunedì 27 settembre 2010

L'idea fissa

Dedicato ai matti (o presunti tali)

Pensiamoci bene. Chi è un matto? O meglio, chi definiamo come tale? Non in senso patologico, ovviamente. Tranquilli, non siete sul blog di Dr. House. Per il momento non mi serve neanche il bastone… Stavolta la prendo alla lontana per provare a spiegare (o a spiegarmi) un pregiudizio, un limite della nostra mente, macchina complessa e troppo spesso superficiale.

Quando, in senso buono, diamo del “matto” a qualcuno, siamo soliti associargli (o associarle) delle idee fisse. Anzi, molto spesso, un’idea fissa. Non parlo di manie, tipo sistemarsi continuamente i calzini, passarsi le mani tra i capelli, spolverare tutti i giorni i mobili di casa… Quelli sono comportamenti meccanici che per lo più vengono ereditati da esperienze vissute. Parlo di caratteristiche del carattere, parlo di sfera umana.

Così l’appassionato di modellismo diventa un po’ matto perché, invece di uscire nel weekend, si rinchiude in casa a costruire barche in miniatura. Chi per professione suona l’oboe diventa un po’ matto perché… Perché… Che minchia è l’oboe? Ecco perché. Chi lavora dalle 4 del mattino alle 12, quando potrebbe fare il canonico 8-17, diventa un po’ matto perché ci si chiede chi glielo faccia fare. Queste persone diventano un po’ matte perché sono semplicemente diverse da noi, dai nostri standard. Ma, soprattutto, diventano un po’ matte perché parlano spesso della loro idea fissa, e ne parlano come se fosse quello lo standard. Semplici punti di vista? Può darsi.

La gente mi ha sempre considerato un po’ matto. E da buon matto, io l’idea fissa me la immagino come una di quelle candeline “magiche”, quelle delle torte con il trucco. Quelle che fanno incazzare i bambini. Capito, no? Soffi, le spegni e si riaccendono. Ci riprovi, soffi, le spegni e quelle si riaccendono un’altra volta. Nella vita capita che sia proprio tu a cercare di “spegnere” l’idea fissa. Perdi la donna che ami e vuoi “spegnere” il cuore, fatichi con il lavoro che fai da 20 anni e vuoi “spegnere” la tua professione, rompi il tuo peluche preferito e vuoi “spegnere” (o bruciare) tutti i pupazzi dell’universo. Ma la candela, puntualmente, si riaccende.

L’idea fissa è “io sono fatto così e se non vi sta bene… Pazienza! Io sono in pace con me stesso”. L’idea fissa è avere davanti un prato meraviglioso, pieno di fiori bellissimi, alcuni dei quali però nascondono delle mine pronte ad esploderti in faccia. Ma tu te ne freghi e li raccogli lo stesso perché solo pochi esplodono. Molti profumano di paradiso.

Qual è la mia idea fissa? Facile. Costruire una squadra vincente dove ciascun componente sarebbe pronto a dare il sangue per l’altro. Dove la parola “io” non esiste, esiste solo il “noi”. Dove ci sono giorni in cui chi se ne frega se non ho giocato, la mia squadra ha vinto! Cazzo! Dove alla fine delle partite non bisogna chiedersi “andiamo a mangiare la pizza?” perché è scontato trovarsi al solito posto tutti insieme. Dove un atleta si spacca in quattro anche se non riesce, e gli altri fanno il tifo per lui (o per lei, che mi si addice di più).

A volte, ho provato a spegnere la mia “candelina” ma quella si è sempre riaccesa. Da alcuni anni ho smesso di allenare le “prime squadre”, le adulte, l’élite. E sono tornato ad occuparmi solo di giovani. Il motivo è molto semplice: non passa giorno che io non debba ringraziarle. Mi basta un loro sorriso, mi basta un loro “a che ora domani?” e… la candelina non provo mai a spegnerla. Perché i giovani sono la speranza. I giovani sono il sogno. E adorano i “matti”…

lunedì 20 settembre 2010

Si va in scena!

Dedicato a chi non sa cosa vuol dire

PIT, PIT… PIT, PIT… PIT, PIT… E’ sempre lei, la maledetta! Quella che ti fa dire, più o meno tutti i giorni, “ancora cinque minuti”. La scatola malefica con le lancette fluorescenti che ti osserva dal comodino quasi con un ghigno mentre tu controbatti con aria di sfida, soprattutto il lunedì mattina. Ma stavolta non la fai tacere con una sberla in testa. La tua sveglia ti guarda austera come sempre ma tu sorridi e la spegni con un buffetto. Le vuoi quasi bene. Oggi è sabato, oggi c’è la “prima” di campionato.

Vescica gonfia e petto in fuori. Pronto per il solito lavaggio quotidiano: faccia, denti, piano di sotto. Ma non è il solito pit-stop mattutino. Stavolta è lento come lo farebbe il primo uomo sulla luna. Un’ultima occhiata allo specchio, ti piaci un sacco, manco fossi George Clooney… Barba lunga. Tiri fuori il rasolio.
Ma sei scemo?! Il giorno della partita la barba non si fa! Porta sfiga!!! Più invecchi, più ti rincoglionisci… Simpatica senilità precoce.

La mattinata se ne va insieme a frasi insignificanti dette alla cassiera del super, al panettiere e al fruttivendolo. Ogni minuto che passa usi sempre meno vocaboli fino al silenzio. Muto. Ti rimane stampato in faccia solo un sorriso da ebete fino all’ora di pranzo. Davanti a te un piatto di pasta. Ma nel tuo stomaco qualcuno comincia a fare a pugni. Pensi al fritto misto della sera prima ma sai benissimo che non è lui. Chiedi scusa alla pasta ma la lasci lì. E’ cominciata la “trance”. Non parli più. La testa è già lì da un pezzo. “Papà! Posso attaccare la Play in sala?” ti chiede tuo figlio. Il furbetto sa sempre qual è il momento giusto per le rivendicazioni sindacali. “Si” è la frase più lunga che riesci a dire. Prendi la borsa e ne sfili lentamente la cartelletta. Ok… Schemi a posto, i fogli formazione ci sono, documenti in ordine. Borsa in spalla, pronti… via!

Il tragitto casa-palestra in auto è una dolce passeggiata, ti sembra di guidare su un sedile di ovatta. Fai scorrere le canzoni dell’mp3 fino a raggiungere quelle giuste. Immagini le tue bimbe che si preparano la borsa (o se la fanno preparare) e ti chiedi se anche loro ci stanno già pensando. Se anche loro, come te, sono già lì con la mente. Ti distrai e sbagli strada, dovevi girare a destra ma vai dritto. Ma non t’importa, fai il giro lungo. Tanto sei in anticipo, come sempre. Un minuto in più col culo sull’ovatta. Arrivi a destinazione, spegni la macchina. Gli ultimi trenta secondi della canzone preferita e entri in palestra. Il tuo tempio.

Giù la borsa. Allestimento campo. Panchine, pali, rete, astine, palloni. Sistemi tutto alla perfezione e poi osservi il tuo piccolo lavoro con la stessa faccia da ebete che avevi a pranzo, come se stessi ammirando la Monna Lisa. Ti accomodi sulla tua panchina e prepari gli attrezzi del mestiere. Lavagnetta, pennarello, biro per gli appunti. Senti le prime voci. Arrivano le bimbe. “Ciao, Tony! Ciao, Tony! Ciao, Tony!”. Sono una squadra anche in quello. Salutano tutte allo stesso modo, tranne la solita che arriva dieci minuti dopo, rossa in volto e trafelata. “Scusa, sono uscita tardi da scuola. Ah… Dimenticavo! Ciao, Tony!”.

Il riscaldamento delle squadre sta per finire. Hai già fumato due sigarette da quando sei arrivato. Per qualche attimo ti fanno compagnia la mamma di Tizia, la sorellina di Caia e il papà di Sempronia. Ti dicono un sacco di cose e tu cerchi di ascoltare. Ma è già qualche ora che non ascolti più nessuno.

Le ultime raccomandazioni alle bimbe. Mancano cinque minuti. La sigaretta del condannato, rigorosamente da solo e rigorosamente buttata a metà. Rientri. Il saluto sotto rete e il “buona partita” al collega avversario.
Adesso tutti in cerchio.
OOOHHHH… SOOO!!!
Forza, bimbe! Si va in scena!

lunedì 13 settembre 2010

Corto circuito

Dedicato a chi ha dei dubbi

Questa volta il “la“ me l’ha dato un libro che ho riletto di recente: Il Dubbio di Luciano De Crescenzo. Ho voluto sintetizzarlo in una frase che è comparsa ne Il Sassolino, l’aforisma della settimana, qualche tempo fa.
"Solo gli imbecilli non hanno dubbi!"
"Ne sei proprio sicuro?"
"Non ho alcun dubbio!". 


Ho sempre diffidato di chi ha fedi assolute, di chi parla sempre per frasi fatte. Una delle più clamorose è “se potessi tornare indietro, rifarei tutto quello che ho fatto”. Che ipocrisia da quattro soldi! Io, invece, se potessi sedermi sulla macchina del tempo, farei qualche sosta e cambierei volentieri qualche scena del mio film.

L’argomento è di quelli non ampi, di più. Eterni. Quindi prendo il pezzettino che mi interessa ora e ci metto sopra un po’ di sana provocazione. Il rapporto genitore-giovane atleta. Ed è un paradosso dei tempi moderni, un corto circuito. Mi spiego meglio.
Quando quelli della mia generazione, me compreso, si ritrovano in branco (che so… in pizzeria, all’uscita da scuola per recuperare i figli, nelle pause panino-birretta-via di corsa a lavorare…), sono soliti incensare i propri tempi passati. “Noi sì che eravamo indipendenti, non avevamo bisogno del cellulare, a scuola andavamo sempre col bus mica col suv di Papino, il ritrovo della compagnia non aveva bisogno di cento sms perché era sempre al solito posto-solita ora, giocavamo in cortile non alla Play, noi sì che comunicavamo veramente mica come oggi che si chatta e basta…”.

E via di questo passo. Fin qui si potrebbe anche non trovare nulla da obiettare. Ma quando rimettiamo il paletot del genitore, la faccenda cambia. La cosa più assurda è che spesso sbugiardiamo quelli che, quando abbiamo un flut di vinello fresco in mano, spacciamo ai nostri simili per essere i capisaldi della sana educazione. Fiducia, giusta indipendenza (non regalata s’intende), comunicazione e comprensione verso i nostri figli. Ah… Dimenticavo! Tolleranza verso la diversità, la migliore.

Qualcuno, però, dovrebbe spiegarmi perché spesso ce ne usciamo con minchiate (perdonate l’inglesismo) come “mio figlio non può fare sport a livello agonistico perché ha troppo da studiare”. Sentita qualche giorno fa. Oppure “alla mia bambina allaccio io le stringhe delle scarpe perché non è ancora tanto brava”. Scena vista qualche mese fa. E ancora “Oggi Giovannina non viene in palestra perché, anche se abitiamo a 500 mt. di distanza, non la posso accompagnare in macchina. E non mi fido. Sai per strada… Tanti extra-comunitari…”. Vera anche questa. Anzi, detta col massimo candore.

La cosa che mi fa più ridere, ma più spesso incazzare, è che incolpiamo un “fantomatico” sistema di tutte queste abberranti affermazioni. E’ la società di oggi, si dice. Scegliamo noi per i nostri figli, per il loro bene. Perché loro non sono ancora in grado. E magari molti di quelli in questione sono prossimi alla maggiore età. Ma non eravamo mica quelli del “bus-no suv”, del “noi indipendenti”, del “bianco e nero siamo tutti uguali”?

Io non ho certezze. Penso che la società, forse, siamo noi. Penso che dovremmo, forse, chiedere più spesso ai nostri figli il loro punto di vista. Penso che se nostro figlio sia convinto di potersi allenare tutti i giorni e riuscire anche a studiare, forse, sia meglio metterlo alla prova. Forse = dubbio. Dubbio = crescita. Crescita = indipendenza. Forse.

lunedì 6 settembre 2010

Sipario

Dedicato a chi ha creduto in me

Nello sport, come nella vita, ti capita di arrivare ad un bivio. Due cartelli davanti ma, in quel momento, una sola strada è quella giusta. Nello sport, come nella vita, ti capita di prendere decisioni che non vorresti prendere. Due cartelli davanti, vorresti sterzare da una parte ma il volante va dall’altra. L’eterno conflitto tra cuore e ragione. E’ come stare in un flipper, e il flipper sei tu. Metti la moneta, tiri la pallina ma ne escono due. E, per di più, sono due palline impazzite e tu non capisci. A quel gioco, di solito, ce n’è una sola. Cominci a schiacciare tutti i tasti dell’universo, per un po’ le tieni a bada ma quelle maledette palline sembrano non voler fare quello che vuoi tu. E, quando meno te lo aspetti, il flipper te le sbatte in piena faccia. Che botta! Poi capisci e ti fermi. E’ il momento del puzzle, ad ogni tesserina il proprio posto. Il cuore rallenta e la testa cammina…

Sono tornato sul luogo del delitto. Le mie chiavi sono ancora in borsa e tra poco saranno le chiavi di qualcun altro. Apro delicatamente come si fa entrando in un luogo sacro. Silenzio. Scendo le scale. Il mio posto ideale è lì che mi aspetta ma stavolta c’è un comodo cuscino a prendersi cura delle mie chiappe. Mi siedo sulla panchina più bella che abbia mai potuto desiderare, la capanna, la coperta di Linus dei maestri di “zompi” come me. Ancora silenzio. Per la prima volta anche le zanzare sembrano addolcirsi e mi danno tregua. Quanto sangue mi hanno succhiato quelle maledette…

E’ fine agosto. Ho portato con me un album vuoto. Le foto di sei anni della mia vita mi hanno dato appuntamento. Volteggiano nell’aria incuranti del caldo e aspettano il segnale. Mi siedo, apro l’album e una alla volta si avvicinano. Si fermano davanti ai miei occhi come per darmi il tempo di guardarle per bene. Il primo giorno, la prima atleta, la prima partita, fischi, urla, palloni che rimbalzano. Io non faccio nulla, osservo e godo. Una alla volta vanno ad appiccicarsi nella pagina giusta, al posto giusto.

Ci sono proprio tutti. Dirigenti, colleghi, genitori. Il saluto all’Orso Grigio che parte per nuove sfide. Qualcuno è riuscito addirittura a saltare il fosso. Il miracolo: riuscire a diventare tifoso di una squadra e non solo della propria figlia. Ma soprattutto ci sono loro. In sei anni ne ho viste passare alcune centinaia, e ne ho allenate diverse decine. Le mie bimbe.

La foto di ognuna di loro entra nell’album, mi sorridono. La sfilata più bella del mondo, altro che le modelle in passerella… Mi ringraziano di tutto e mi perdonano tutto. Come sempre. E come sempre arriva anche Santa Lacrimuccia che non mi abbandona mai. Anche lei vuole salutare. Anche lei sfila per farsi bella.

L’album ora è completo, si richiude da solo e rimane lì sulle mie gambe. Lo accarezzo con cura, un’ultima occhiata. E’ ora di partire. Mi alzo e risalgo le scale.

Clack! Clack! Clack!
I soliti tre interruttori.
Si spengono le luci. Sipario.